Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

DISCUSSIONE/BA RICCO ANCORAUNA VO&TA Alessandro Baricco C'è un bell'aneddoto, attribuito a Toscanini. Più che un aneddoto, una frase. Dunque: lui, Toscanini, sta provando il Ballo in maschera. Prova, corregge, striglia i primi violini, riprova, le solite cose insomma. Poi arriva all'introduzione orchestrale al second'atto. L'esegue, l'orchestra, tutta d'un fiato (invento, naturalmente, ma di sicuro è successo così). Poi si ferma. Un attimo di silenzio. Toscanini guarda in faccia gli orchestrali, chissà che facce, chissà che orchestra. Li guarda. Poi sorride, pochissimo ma sorride, e mormora (e qui non invento, la frase è vera): "Ancora una volta, perché mi piace da morire". Così. Ridotta all'osso, la ragione per cui si fanno concerti, e opere, e recital, è tutta lì: "ancora una volta, perché mi piace da morire". Sotto al gran polverone di idee, commerci, mode, c'è la semplicità di un desiderio che ha dell'infantile: "ancora una volta". Tutto il gran rito della musica colta non è che la celebrazione di un congedo infinito: una ritrosìa centenaria a dire addio. Il ritmo della ripetizione inesausta cadenza il tempo di una proroga che non scade mai. Riassunta così, la frequentazione della musica colta si esaurisce nella felice immediatezza di un desiderio reiteratamente soddisfatto. Viene da chiedersi perché mai la si finisca regolarmente per corredare di tante chiacchiere, e studi; e dotte analisi. Non la si potrebbe lasciare nella sua innocenza di gioco epidermico e felice? Per dirla tutta: è proprio necessario sapere di musica, scrivere di musica? Non si potrebbe ascoltarla, e basta? La prima risposta che mi viene in mente la devo ad Adorno. Quel che ha insegnato lui, con sfinente ostinazione, è a sospettare di qualsiasi immediatezza dell'esperienza estetica. Ha insegnato a temerla. Perché l'immediatezza è una delle maschere dell'imbecillità. E l'imbecillità boicotta l'opera d'arte, la svuota: la riallinea al meramente esistente (puro gergo adorniano). Lui pretendeva che il cammino tra spettatore e musica dovesse essere in qualche modo tortuoso: perché quella sorta di faticoso andare a tentoni concede all'opera d'arte il tempo a lei necessario per cristallizzarsi a eccezionalità. C'era naturalmente, in tutto ciò, molto moralismo e qualche tentazione elitaria di troppo. C'era l'idea, in sé non particolarmente simpatica, che l'esperienza estetica dovesse essere a tutti i costi selettiva. Ma, di fondo, c'era soprattutto l'intuizione che l'opera d'arte andasse difesa dalla secolarizzazione rovinosa di uno sguardo superficiale e ottuso. Con quell'intuizione è difficile non sentirsi solidali. Di fronte al melomane che schizza istericamente in piedi dopo l'ennesimo acuto pucciniano, in un'esibizione di entusiasmo puramente gastronomico, diventare adorniani è quasi un obbligo. Va in scena, lì, un'immediatezza che intimorisce: sotto la legittimazione di uno spettacolo cosiddetto "colto", si consuma in un attimo l'asservimento cieco alla più gratuita delle 92 Sir Malcolm Sargent all'Albert Hall (foto di Godfrey MacDomnic) ruffianate. Dove l'ascolto è lasciato solo con se stesso, si abbassa la guardia dell'intelligenza critica: prolificano i falsi dei. Immaginata come via di fuga dalla falsità dell'esistente, l'esperienza estetica diventa, in un attimo, adesione al falso più marchiano. Autocelebrazione di un'umanità turlupinata. Seconda risposta: e viene da Gadamer. A lui si deve il concetto di Wirkungsgeschichte ovvero "storia degli effetti". Riassumendo e semplificando: nessuna opera d'arte del passato ci si consegna quale era in origine: a noi arriva come .un fossile incrostato di sedimenti collezionati nel tempo. Tali sedimenti sono, fondamentalmente, le diverse interpretazioni che via via l'opera ha provocato. Il suo stesso profilo è alterato da tali interpretazioni, che, ogni volta, non mancano di lasciare un segno indelebile. Dunque c'è una sorta di esistenza seconda, consumata "sul piano della cultura", che si aggiunge all'essere originario dell'opera. Con ciò va smarrita la possibilità di un'opera capace di offrirsi a noi con una felice autotrasparenza: il rapporto con essa è irrimediabilmente mediato dalle metamorfosi che il tempo le ha impresso sotto la forma di una sequela accidentale di letture diverse, interpretazioni differenti. Farsi strada in una simile rete di immagini è ciò che spetta a chi si avvicina all'opera: ed è un gesto ermeneutico che trascende l'immediatezza dell'ascolto e mette in gioco la fatica della riflessione. Ho citato Adorno e Gadamer: due scorciatoie, tra le tante, per arrivare alla decifrazione di un verdetto: nel confronto con le opere musicali del passato, l'esperienza dell'ascolto è una sorta di gesto parziale e provvisorio che ha il proprio respiro, naturale e doveroso, nella prassi della riflessione e dell'indagine critica. Ciò sfata il bell'incantesimo toscaniniano del semplice e felice "ancora una volta". Ma nel contempo attira l'attenzione su tutto quello che, attualmente, è venduto come "prassi della riflessione", autorevole "al di là" della semplice esperienza dell'ascolto. Vale la pena di setacciarlo con cura. Vale la pena di misurarne, per così dire, il peso specifico. Di musica si scrive. Non moltissimo ma si scrive. La produzione, con una certa geometrica disciplina, si addensa ai due estremi dello scrivibile: gli studi specialistici, da un lato, le recensioni su quotidiani e simili, dall'altro. Facciamo che liquidare il secondo caso. Le recensioni, com'è noto, sono per lo più inutili. Sostanzialmente funzionali al mercato, sono pubblicità strisciante, travestita, involontaria. Alcuni recensori, pochi, riescono anche a far passare qualche annotazione di limpida intelligenza. Ma il grosso della produzione è puro lubrificante per la macchina dei concerti e del mercato discografico. Per quel che vale la mia esperienza, posso assicurare che gli esecutori per cui vale effettivamente la pena di prendere una penna in mano e raccontarli sono una decina; quotidianamente si pubblicano decine di recensioni di concerti per i quali l'unica chiosa effettivamente giustificata sarebbe: sono realmente avvenuti. Stop. Non è colpa dei recensori. Non è colpa di nessuno. Semplicemente è bene ricordarsi che non è quella la "prassi della rifles-

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