Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

STORIE/SOLINAS Un giorno uno ha vociato; "Mettiti a letto vecchio balordo". lo volevo gridargli dietro che non era vero e altro. Però la voce non mi veniva e ingoiavo saliva. Quelle parole mi bruciavano il cervello. torno al polso. Spesso mi succede non ancora del tutto desto di ripetere quell'operazione. Dopo un moto di stizza me ne resto con l'orologio nella palma e sento l'impulso di rimettermelo. Ma il pensiero che un oggetto d'oro al polso non si confà a chi chiede una briciola della generosità altrui, me ne distoglie senza fatica. Quando mi sovvengo che prima si confaceva mi convinco che col tempo ho acquistato coscienza del mio officio. Ho incominciato a mendicare dopo il funerale di mia moglie. lo non c'ero. Mi dissero ch'era morta. Fuggii su un treno. Alla frontiera mi fermarono per i documenti. Al mio ritorno era stata già sepolta. Non so per quanto tem- · po vagai per la città. La notte dormivo nelle sale d'attesa delle stazioni. Avevo terrore della mia casa. In quei giorni fermavo la gente per la strada e chiedevo i soldi per mangiare. Poi vennero due agenti della polizia ferroviaria e mi presero sotto braccio. Ritornai a casa ma non per molto. Alla fine non mi fu più possibile dormire nelle stazioni e io mi riabituai al mio letto. Un giorno mi ammalai e dovetti stare in casa. Veniva a trovarmi una vicina del pianerottolo. È una vecchia come me. Lei faceva la spesa, lei cucinava, lei mi teneva compagnia. Era la mia infermiera senza ricompensa. lo avrei preferito che mi lasciassero morire di fame. Ma la carità umana è davvero grande nella necessità. Ora vivo nell'ossessione che lei possa ammalarsi. Non voglio ricambiarne i piaceri. Né credo li accetterebbe già che sa di me. Mi conforta il pensiero dei suoi parenti e tremo come uno sciocco. Quando ritornai in strada fu una vera liberazione. Com'era bella la città! Ne divoravo a gran morsi le vie. Ero quasi felice che mia moglie fosse morta. Rivedevo i miei luoghi e mi sembravano nuovi. Camminai per ore senza fermarmi. Portavo gli occhi di qua e di là in un forsennato andirivieni che tutto abbracciava. Entrai nel giardino che tremavo di un fremito irrefrenabile e sedetti sulla prima panchina. Con le palme all'insu, le gambe lunghe e aperte, il mento sul petto mi addormentai. Mi svegliai di colpo. Vidi il giardino e -lo riconobbi. L'ultima volta che ci venni era viva! viva! Tante volte ripetei quella parola finché non seppi più perché né cosa significava. Uscii dal cancelletto che il cuore mi doleva. Lo sguardo volto a terra andavo lungo la cinta di ferro fra le cui sbarre infilavo le dita. Le punte aguzze le nascondeva una folta siepe. Vidi le scarpe sporche di polvere e guardai più innanzi. li capo mi bruciava. Alla vicina fermata salii sull'autobus che passò per primo. Alla successiva ne ridiscesi con l'affanno in petto. Entrai in un portone e nella penombra ritrovai la calma. Fuori la luce abbagliava. Inseguivo le parti in ombra strisciando lungo i muri. Quando giunsi a casa ero spossato. Sulla mia poltrona di velluto accarezzavo curvo su un lato il bracciolo vicino. Il pelo si rizzava e si piegava mutando di tonalità a misura che la mano saliva o scendeva. Il campanello suonò due volte ma non apersi. Una voce chiamò in tono basso il mio nome ma non risposi. Sentii la porta che si richiudeva e mi alzai. Nello specchio del bagno mi fissai a lungo negli occhi. D'un tratto il vetro s'appannò. Stizzito serrai il rubinetto e svuotai tutta l'acqua dalla vasca. Stringendo forte i bordi del lavabo vidi come il mio volto lentamente ricompariva più nitido. Trovai che la barba m'era cresciuta quel giorno. Afferrai il rasoio ma poi non ne feci nulla. La notte non dormii. E con il sonno disparve la mia immagine. Al principio la cosa non fu semplice. Ora è un'abitudine come le altre. Passato è il tempo ma io non sono cambiato. Non fu il bisogno che determinò la mia scelta. Vivo libero ed è quanto basta. All'ingresso d'una banca o accanto a un'edicola ho appreso a conoscere gli uomini dal volto e dai gesti. Io sto sempre zitto e quando loro parlano non li ascolto. Molti mi dicono qualcosa mentre infilano la mano in tasca, tolgono dal borsellino un paio di monete che lasciano cadere nella mia palma. Io rispondevo di sì e quelli s'allontanavano rispondendo a loro volta sì. Adesso indico subito l'orecchio e se anche mi parlano ho la mia scusa. Nei primi tempi qualcuno vedendomi nuovo me ne chiedeva perché. E io, "compro i fiori per mia moglie". Quando mi passano vicino hanno l'aria offesa di chi guarda un vecchio pazzo che sa che non sempre lo è stato. Un giorno uno ha vociato, "mettiti a letto vecchio balordo". Io volevo gridargli dietro che non era vero e altro. Però la voce non mi veniva e ingoiavo saliva. Tremavo tutto e sudavo. Quel giorno non chiesi più. Camminai fino a sera. Quelle parole mi bruciavano il cervello. Erano un fuoco che non potevo spegnere. Infine mi convinsi che sì lo ero ma la cosa m'era ormai indifferente. Sedetti che respiravo a fatica. Ero capitato in uno strano giardinetto. Verdi panchine di metallo alternate a giovani pioppi cingevano in circolo uno spiazzo di mattonelle colorate. Le bizzarre figure geometriche erano sbiadite. Più in là un piccolo e polveroso parco giochi per bambini. A ridosso d'un alto muro un chiosco di bibite. Radi e irregolari cespugli erano la cuccia d'un cane vagabondo. Al centro di quella pista un bambino gettava chicchi di grano ai colombi che s'alzavano e si posavano intorno a lui che lanciava in aria brevi stridi spaventando i più vicini. lo avevo paura che i colombi mi volassero addosso e me ne andai quasi di corsa. Al girare un angolo mi voltai e vidi che non era rimasto nessuno. La notte feci un sogno. Un bambino raspando nella polvere trovava una moneta e poi un'altra e un'altra ancora e le pupille gli si ingrandivano di gioia. Chiamò i compagni e mostrò quel piccolo tesoro. Tutti quanti si misero a cercare ma nessuno trovò più una moneta. Non ricordo altro del sogno. Negli ampi saloni delle banche centrali guardo l'alto soffitto la lunga fila di sportelli le code dei clienti senza alcuna soggezione. Mentre attendo che uno degli sportelli che fanno al caso mio si liberi sento come là dove tutto è grande l'unico ospite insignificante sia proprio quel denaro che va e viene. Quando fa molto caldo o molto freddo siedo su uno di quegli scomodi divani a forma di ciambella di spalle al tavolo degli uscieri. Però finisce che qualcuno se ne accorge e prima che dica che non posso starci io esco senza far storie. In fondo dentro non chiedo mai. Sono invero poche le volte che vi entro e quasi sempre per necessità. Passando la soglia mostro loro qualche banconota. Quelli capiscono che devo cambiarla e accennano di far presto. Ma io faccio con mio comodo e, le monete già in tasca, li saluto con l'ombrello. Una mattina un giovane dall'aria distinta ma già un po' severa si ferma a qualche passo da me e lievemente mi sorride. Anch'io lo guardavo pensando "è un voto che si compie". Poi volge con calma studiata quel viso in tutte le direzioni e io lo imitavo con gli occhL D'un tratto mi si fa innanzi e mi mette in pugno una banconota che teneva già pronta e se ne va senza dir parola. lo lo seguivo allontanarsi, così silenzioso e leggero che un volo di passeri sfiorandolo lo avrebbe fatto cadere. Ma presto ne distolgo lo sguardo, apro la mano e vedo quanto denaro sia quel biglietto. Voglio nasconderlo prima èhe qualcuno passando me lo porti via. Ma quella è la somma d'un intero mese ·di elemosine! Quando esco dall'ultima banca ho le tasche rigonfie di monete. Mi pesano come non credevo e ho paura che si sfondino. Cammino adagio. Mai l'ombrello mi è stato di così grande aiuto. Finalmente entro nel giardino. Nel sedermi alcune monete scivolano via. Col piede le ricopro di terra. Il luogo è deserto. È l'ora in cui tutti siedono a tavola. Anche gli uccelli tacciono. In quel silenzio rotto solo dal mio respiro pensavo al generoso giovane. Non era trascorso un minuto che un tale con due grandi buste di plastica grosse di spesa si piazza davanti e mi chiede piegando il capo i soldi della metropolitana. lo prendo due monete e lui accenna a sedersi accanto a me. Parando la mano gli faccio capire che voglio restar solo. Quello esita e poi va a sedersi nella panchina quasi di fronte alla mia. Da lì mi 89

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