STORII/SOLINAS Era irresistibile e io lo tenevo sotto il naso. La copertina di pece si piegava così in un angolo già prima che arrivasse a casa. Ma era una ferita che in qualche modo si curava, anche se ne restava per sempre il segno. Della mia firma non è rimasto nulla. Poche volte all'anno ritiro la mia pensione. Nell'ufficio postale dove tutti mi conoscono, me ne sto in disparte finché l'impiegato non mi fa cenno di avvicinarmi chiamandomi professore. lo subito mi dirigo allo sportello pensando febbrilmente al mio nome. E quando dice ficcandomi sotto gli occhi un libraccio pieno zeppo di numeri e nomi, di firmare qui sotto il suo dito e poi di nuovo qui e così per tante volte, io a stento trattengo le lacrime, ma la mano prende a tremare che quasi mi cade la penna e fa uno scarabocchio sempre diverso. Al principio mi sgridavano, io tacevo immobile, poi prendevo i miei soldi e uscivo in silenzio. Il sole del tardo mattino mi faceva bene. Camminavo a strappi con quel danaro stretto in pugno e l'ombrello penzoloni al braccio mi percuoteva la gamba. A metà circa del lungo marciapiedi entravo in una vecchia pasticceria. Ordinavo dei piccoli dolci indicandoli di volta in volta col dito. Poi col piccolo involto tenuto per il cordoncino uscivo dalla porta girevole. A quell'ora tutte le panchine erano vuote e io ne sceglievo una splendente di luce. Finito il mio pranzo di dolci mi sarebbe piaciuto accavallare le gambe e stirarmi un po'. Invece, l'ombrello tra le gambe, posavo sul manico le mani l'una sull'altra e piegavo all'indietro il capo per ricevere in pieno viso quel tiepido sole. Ma presto mi stancavo. La testa mi girava come a un ubriaco e la chinavo sul petto, con le palpebre socchiuse assopendomi senz'accorgermene. Qualche cane attirato dall'odore dei dolci mi destava di soprassalto. Spaventato lasciavo che aprisse da sé il pacchetto e ne divorasse quanto restava. Poi lo cacciavo via e quello se ne andava portandosi appresso il_cartone. Lo seguivo con gli occhi, e dopo una corsicina lo vedevo fermarsi e, voltandosi appena, guardarmi diritto. Allora lo minacciavo con l'ombrello e fuggiva come una lepre lasciando cadere dalla bocca il cartone. Il foglio ora sporco e rotto era volato lontano. Un po' stordito osservavo il manico del mio ombrello perfettamente lucido e liscio pensando che mai avrei colpito il cane. È ancora bello e non fa al mio caso. Ma io lo porto sempre con me. Mi serve da bastone. Molti occhi si puntano su quel manico di malacca che stringo più forte quando la punta batte in terra. Ho paura che me lo rubino e io non lo lascio nemmeno per un istante. Se le mani devon essere libere lo tengo al braccio. Solo a casa lo perdo di vista chiudendolo nell'armadio come avveniva quand'era in vita mia moglie. Fu durante il viaggio di nozze che lo comperai contro il parere di lei. L'etichetta diceva originale inglese e il prezzo era veramente alto. Però io non avevo mai posseduto un ombrello prima di allora. Per tanti anni non l'ho usato una sola volta. Me ne vergognavo. Dimenticato nell'armadio, tavolta lo aprivo per provarne lo scatto, riprovavo ancora, poi lo infilavo nella sua custodia e lo riponevo nell'angolo di sempre. Così mi convincevo che mia moglie aveva senso pratico e io non mi conoscevo come avrei voluto. Quand'era ormai fuori moda, cominciai a portarlo in giro con disinvoltura. Non mi è mai piaciuto camminare sotto la pioggia per via delle scarpe di cuoio. Ma odiavo la suola di gomma. Era come pestare una strada fangosa. Adesso che di tempo ne ho fin troppo, quando piove mi riparo dietro a un portone o sosto sotto un balcone in attesa che smetta. Ma non lo faccio per le scarpe bensì per l'ombrello. A quei tempi però ciò non sempre era possibile, mettevo allora le scarpe peggiori e uscivo con un vecchio ombrello. li nuovo, solo col tradimento coatto sono riuscito a farlo servire al suo uso. Per fortuna avveniva raramente. Era una tortura andare per la via sotto l'acqua scrosciante. Temevo che la pioggia lo rovinasse, che prendesse colpi da altri, di dimenticarlo 88 infine in qualche luogo pubblico. Una tale mania non mi ha abbandonato. E ho potuto conservarlo fino a oggi intatto. Ma non è tutto. Fu d'estate. Mi alzavo e sedevo sulla panchina d'un vialetto deserto senza decidermi a ritornare a casa. Era notte e rinfrescava. La terra il legno i vestiti sembravano tuttavia non disposti a cedere la loro porzione di calore. Avevo l'allegria in corpo e non volevo andar via. Sarebbe stata la prima notte della mia vita passata all'aperto. Mi distesi supino sotto la panchina. La luce del lampione sopra di me cadeva sui miei occhi. lo non volevo cambiare posizione né muovermi di lì. Posai perciò l'ombrello sulla panchina all'altezza del viso. Non avevo sonno né lo cercavo. Non so quanto tempo passò. Ma ero già stanco quando udii in lontananza dei passi. Poi il rumore aumentò velocemente. Col cuore in subbuglio mi voltai di fianco e vidi due scarpe venire nella mia direzione, arrestarsi di colpo a pochi metri e subito dopo allontanarsi lungo il viale. Annodai l'elastico dell'ombrello al dito e immobile col braccio mezzo sospeso attesi l'alba. Ora rincaso ogni notte e una paura ancora s'è aggiunta alle altre. Nei giorni successivi all'accaduto pensai spesso a quel tale. Era da escludere che fosse un ladro autentico. E così pure la molla del bisogno. Ciò che mi premeva di sapere era se lo avessemosso il desiderio d'impossessarsi d'un oggetto qualsiasi che si crede smarrito o l'attrazione del bel manico. La mia paura aumentava se prevaleva la seconda ipotesi. Infine il dubbio perse d'interesse, però il furto del mio ombrello resta una possibilità. lo vorrei far ritorno a casa prima dell'imbrunire se non fosse per il pensiero di star solo tante ore. Da quando non c'è più lei rientro solo per dormire. Ma le ore di sonno per un vecchio sono ben poche. Cammino e cammino e giungo a casa stanco che non mi reggo in piedi. È tardi e mi addormento. Quando le notti sono lunghe mi sveglio che è buio. Mi alzo senza accendere la luce per l'abitudine di non svegliare mia moglie. Così pure per coricarmi. L'accendo soltanto per la pulizia. Fuori della stanza la luce dei lampioni rischiara la casa. Dal giorno che è morta non ho più chiuso le imposte. Nella penombra faccio le mie cose con lentezza e in gran silenzio. Esco che incomincia ad albeggiare. La via si desta rumorosa. Sosto sul portone un minuto e respiro profondamente l'aria mattutina. Per arrivare in centro all'apertura delle banche allungo di parecchio la mia strada. Non è sempre la stessa. Prima di uscire ho in testa tutti i percorsi, ma sono i miei piedi a scegliere quello del giorno. La varia distanza non mi preoccupa affatto. Accelerando o rallentando il passo giungo sempre in tempo. Non ho più l'orologio. Tutto il cammino è segnato di tanti particolari che mi indicano l'ora. E poi conosco la durata esatta d'ogni tragitto. Posseggo tre sveglie. Una a corda è ferma da anni. La sostituimmo per il suo ticchettio ormai insopportabile. Finita in un cassetto non l'ho mai cercata. Quella elettrica di plastica non funziona. Se ne sta avvolta nel suo lungo filo in cima alla credenza di cucina fra cose fuori uso. L'ultima a pila non si carica ed è lei che mi dà l'ora quando mi alzo, esco e vado a letto. La prima fatica della mattina era di dare la corda fino in fondo al mio orologio da polso, nel centro del tavolo da pranzo vuoto. Ve lo lasciavo ogni notte insieme con gli indumenti sparsi qua e là ma in maniera ordinata prima di entrare nella stanza da letto. Un giorno la corda si ruppe. È ancora lì. Non ho mai pensato di comprarne uno nuovo, tanto varrebbe riparare il vecchio. È stato l'unico regalo di mia moglie che abbia gradito. Chissà il solo dacché sono al mondo. Lei sapeva quanto io non amassi fare né ricevere regali. Ma da qualche tempo avevo senza nessuna celata intenzione espresso il desiderio di cambiare il mio orologio di giovanotto. Lo vidi quando lunghe dita innanzi a una verde cortina lo posavano su un piedistallo trasparente. Era quello che cercavo! Alcuni giorni dopo una mattina al risveglio me lo ritrovai in-
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