STORII/ARPAIA I&VECCHIOEI&MALE Bruno Arpaia - E venuto di nuovo. Questa volta è tornato per chiedermi dei libri francesi che mi sono arrivati venerdì da Parigi. - Vorrei almeno leggerli prima di prestarli - gli ho detto. Ho sottolineato la frase con un'espressione di fastidio, esibendo una smorfia che avrebbe voluto comunicargli il mio senso di su- : periorità, ma Roberto non è tipo da badare a simili sottigliezze. - Non li leggerai tutti insieme, no? - ha insinuato. Si è sprofondato ancora di più nella mia poltrona preferita e mi ha fissato con intenzione: aveva stampato in faccia un sorrisino di sufficienza, negli occhi la luce dell'ennesima, inevitabile vittoria. Gli ho messo un paio di libri sulla scrivania e mi sono avviato verso la porta, fermandomi con la mano sulla maniglia in attesa che li prendesse. - Ciao - ho detto con sussiego, nel tentativo di conservare un minimo di dignità. li suo sorrisino non ha fatto una grinza: è uscito lisciandosi i baffetti come David Niven. Non riesco ancora a capire cosa ci trova lei in un uomo così. Adelaide mi ha servito il caffè più o meno alle quattro. Se non fosse per lei, non so cosa ne sarebbe di questa casa, troppo grande per un uomo solo. Ho bevuto il caffè, anche se in verità non dovrei ·prenderne. Le visite di Roberto non si conciliano con i miei nervi: lui deve saperlo e credo che provi un sordido piacere nel venire a trovarmi, nel comportarsi come se non fosse successo nulla. Possibile che non sia ancora pago della sua vittoria, che debba rinnovarla ogni volta per trovare la forza di sopportare la situazione? Fuori è una bella giornata d'aprile, con un vento fresco e un sole attraversato da nuvole veloci. È inutile, non mi va di uscire, non credo che ce la farei: non sono fatto per l'arpore non corrisposto. Non riesco nemmeno a concentrarmi, e se non lavoro divento ancora più agitato. Adelaide deve essersene accorta; ha perfino evitato di venirmi a chiedere cosa volevo per cena. Stamattina hanno di nuovo suonato alla porta. Ho temuto che fosse Roberto, ma Adelaide mi ha annunciato Alfredo Martini, il notaio. Meno male; mi ero già svegliato con l'umore per traverso, avevo anche rovesciato tutto il caffelatte sulla giacca grigia. Scottava talmente ... Adelaide me la pagherà, ne combina una al giorno. Alfredo mi ha regalato un altro di quei libri che solo lui e Don Sisto, il prete della chiesa dell'Ascensione, possono leggere: Vita di San Brunone martire, figurarsi. Ho sorriso e ringraziato, ma non mi sono sprecato molto. Avrei anche voluto mettermi al lavoro, ma lui è rimasto inchiodato sulla mia poltrona per un'ora e mezza, parlando del tempo, di mia zia Livia, della sua defunta moglie che dio l'abbia in gloria. Poi mi ha chiesto perché ero senza giacca, se non avevo freddo, e allora io non ci ho visto più e gli ho detto chiaro e tondo di andarsene perché ero molto stanco o qualcosa del genere. C'è rimasto male, poco mancava che si facesse il segno della croce. Mi sono affacciato alla finestra e l'ho visto percorrere via Cervantes a lenti passi, scuotendo ogni tanto la testa come se non riuscisse a capacitarsi del mio comportamento. C'era molta gente per la strada, tutto un grand'affaccendarsi davanti alle vetrine dei negozi, attorno ai portoni dei palazzi pieni di uffici. L'ho guardato sparire senza rimpianto, futile come la moltitudine che lo circondava e di cui non s'accorgeva neanche. 86 Ho trascorso un pomeriggio monotono, di quelli in cui si perde molto tempo ad aspettare che passi il tempo. Mi sono perfino messo a sfogliare la Vita di San Brunone martire, come se dovessi ingannare un'attesa. È arrivato il caffè e poi, a passo di processione, si è avvicinato il tramonto, penetrando con la sua luce rossastra fra le stecche della persiana socchiusa. Mi sono affacciato alla finestra quando il sole era già quasi per intero nascosto alle spalle del promontorio di Miramare. Da dietro la collina salivano tenui bagliori tendenti al viola: in una sella tra due rilievi il cielo si è fatto rosso e poi livido come un ciclamino. D'improvviso, come se avessi ben altro da fare, mi è sembrato stupido perdere il tempo ad aspettare l'oscurità. Mi sono seduto alla scrivania ed ho scritto in fretta la prima lettera. Quando mi sono riaffacciato, il tramonto era ormai alla fine: il sole si era arreso alla sera, le prime luci delle case facevano da contrappunto a Venere, completamente padrona del cielo. Quel colore cupo, il mare ormaiindistinguibile dalla notte mi hanno messo addosso una timida malinconia. Ho ripensato a Francesca, ad una sua carezza: una fra le tante, ma già da allora sapevo che proprio quella avrebbe lasciato una traccia sicura nella mia nostalgia. Alle otto, Adelaide mi ha portato un brodino completamente freddo. - Sei stupida o che? - le ho gridato. - Che - ha risposto lei, ed ha chiuso la porta senza far rumore. La prima cosa che ha fatto dopo essersi seduto nella mia poltrona è stata chiedermi come stavo. Antonio sa che solo a lui, che è medico, consento questa domanda; però non dovrebbe approfittarne. Comunque, gli ho parlato dei miei acciacchi, dei dolori alle vertebre, ma non ho accennato alla difficoltà di dormire, alla depressione che mi prende soprattutto la sera. Ho il sospetto che si preoccupi troppo dei miei nervi: da qualche tempo, quando mi visita, fa sempre un mucchio di domande stupide. Troppo stupide per uno come lui. Per una mezz'ora abbiamo condotto un'inutile conversazione punteggiata di silenzi. Quando i silenzi sono diventati quasi un intercalare, ho cercato di non innervosirmi: Antonio mi osservava con attenzione e io evitavo il suo sguardo scostando il viso verso la finestra. Non era ancora buio perfetto, si distinguevano i profili dei palazzi e una lontana foresta di antenne. - Ora ti lascio - mi ha detto spalancando i suoi occhi enormi. Eravamo stati zitti per un tempo più lungo del normale. Mi ha stretto la mano e si è diretto a passo di marcia verso la porta: lui esegue ogni movimento, più che farlo. Al di là delle tende sottili, le finestre si sono fatte d'improvviso luminose, rischiarate dai lampioni della strada. Già così tardi. Sono rimasto ad aspettare, ad ascoltare il silenzio, il suo rumore denso e impossibile. "Nessuna sfumatura particolare, oggi. Niente di particolare neanche per la strada". Adelaide mi ha servito il pranzo con un'ora di ritardo. Non l'ho rimproverata, devo smetterla di sentirmi perseguitato. So che ognuno di noi sceglie il proprio destino. A me piacerebbe soltanto che il destino che mi è riservato si addensasse meno in fretta su di me. Nel pomeriggio, quasi rinfrancato da questo pensiero, mi sono addormentato sulla poltrona. È stato un sonno inquieto, un laconico serpeggiare di ceneri davanti agli occhi. Mi sono svegliato quando una luce fredda, filtrata da chissà dove, ha passato sul lucido dei mobili un'opalescenza leggerissima, ha rischiarato la stanza come un paesaggio grigio. Alzandomi, ho visto Adelaide che tirava su
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