STORIE/BONASSO che sarebbe stato meglio cancellarle dalla rotazione eterna delle settimane. Perché i mercoledì (eccezionalmente i giovedì) erano i giorni di "trasferimento". Quel giorno la disciplina era più rigida e un'atmosfera di tensione invadeva il club degli ufficiali. I prigionieri dovevano rimanere ai loro posti, con le catene ai piedi e incappucciati affinché non potessero vedere ciò che stava succedendo. Meno che mai si poteva parlare, né chiamare le guardie. Alle cinque del pomeriggio cominciava una tenebrosa lotteria: gli scomparsi che sarebbero stati trasferiti venivano chiamati per numero e poi disposti in fila. Trascinando le catene, in fila indiana uscivano dal portone principale dirigendosi al misterioso sotterraneo, all'infermeria, dove, a giudicare dai rumori, veniva loro praticata un'iniezione di pentoval, o "pentonaval", come dicevano gli ufficiali della marina. Inebriato da quest'istante di effusione, ancora ignaro di certe regole di discrezione che bisognava osservare rigorosamente, il Pelado si confidò per l'unica volta ad alta voce con la pallida ragazza che lo aveva baciato. - Questi figli di puttana potranno sconfiggere noi ma non il popolo. Le pupille della ragazza si contrassero di terrore. Poi distolse lo sguardo e cominciò un discorso assurdo circa i regali, esattamente come se si trovasse in una festa di famiglia. Il Pelado non comprese precisamente il brutale effetto che aveva provocato la sua stramberia tra chi lo circondava. Percepì solo un certo vuoto, uno strano clima. Forse per questo benedisse la presenza del Beto e del Nariz che, abbracciandolo, lo tirarono fuori dalla situazione imbarazzante. Alle sue spalle, il Chiqui lo guardava in modo ironico e indulgente come dicendo a se stesso: "Perdonalo, Signore, perché non sa quello che fa". Una gomitata gli fece avvertire il nuovo fenomeno che si stava verificando. Dall'ultima cella ubicata nel recinto (il lato più corto della L) giungeva una donna che camminava in un modo penosamente lento. Al suo passaggio si faceva un silenzio religioso, come se si trattasse di un officiante. Il Chiqui lo avvertì all'orecchio: ~ È lei. Egli allora fissò lo sguardo su quella donna vestita di grigio che salutava tutti, anche se era conosciuta solo dai veterani e dai quadri di maggior livello. Anche quelli che ignoravano chi fosse si facevano da parte per cederle il passo, contagiati dalla inspiegabile atmosfera che creava in quelli giunti da poco. Il Pelado non l'aveva mai conosciuta personalmente, però notò immediatamente un contrasto in quella figura spettrale che tutti osservavano. Un contrasto dovuto a un malessere occulto. Cominciando a esaminarla dalla testa, si notava che era ben pettinata e ordinata, che il vestito grigio era pulito e stirato, come quello dei detenuti liberi. Facendo scendere lo sguardo fino ai piedi si poteva scoprire la causa di quel camminare lento: come i galeotti di "Capucha" aveva i piedi imprigionati nelle catene. Quando il Chiqui gli disse il nome, fu percorso da un bri80 vido. Non avrebbe mai messo in relazione quel viso magro e docile con quello mostrato in una fotografia della polizia nel 1970. I manifesti del caso Aramburu esponevano i visi giovani, inespressivi e sconosciuti dei "fondatori". Ricordò il pomeriggio in cui venne a conoscenza casualmente della sua "morte". Era in metropolitana, teso, attento a tutto ciò che accadeva nel vagone, quando fu colpito dai titoli del giornale. La notizia era nella prima pagina di "Cronica", in lettere cubitali, e l'avvertì come una grave sconfitta. Era ciò che all'interno veniva chiamato "un bronzo". Uno di quei compagni il cui nome sembrava un sinonimo di Montoneros. Alla prima stazione scese e acquistò un giornale. Il comunicato del Primer Cuerpo de Ejercito presentava qualche punto incomprensibile, però sembrava veritiero. Per molti mesi, né lui né nessun altro avevano messo in dubbio che fosse morta, finché iniziarono a circolare voci strane, la cui origine era impossibile accertare. Quando la vide a pochi passi da lui, sentì i battiti aécelerare. Era la terza resurrezione alla quale assisteva. Lungi dal1'abituarsi, ogni nuova apparizione lo faceva sprofondare nell'inquietudine e nell'angoscia, ponendogli interrogativi senza risposta. Lei lo salutò come se lo conoscesse, con un sorriso strano e con una serenità ancor più strana. Il Pelado esitò un attimo e poi, ostacolato da manette e catene, strinse nelle sue braccia il corpo fragile ma vivo di Norma Arrostito. Presto si sparse la notizia che la cerimonia volgeva alla fine. Nessuno seppe da dove proveniva. Tutti si separarono all'unisono, come se fossero un organismo gigantesco composto da ottanta parti individuali. Le celle si aprirono e si chiusero di nuovo fino alla mattina seguente. I galeotti fecero ritorno alle loro nicchie. Gli ultimi mormorii si spensero. La guardia adolescente riprese la ronda eterna e il rumore dei condizionatori tornò ad alimentare la fantasia della nave fantasma. Il Pelado passò il resto della notte a "Capucha". Nella penombra, nella quiete interrotta solo dalla incessante ronda, ciò che era appena successo sembrava più che mai un'allucinazione collettiva. I terribili segreti appena svelati lo avvicinavano alla morte. D'altro canto, se Beto, il Nariz e Norma erano ancora vivi dopo tanti mesi, perché non poteva continuare a vivere anche lui? La domanda ondeggiava lì nel fondo della coscienza, come un faro lontano in una notte di naufragio. Era impossibile metterla a tacere; andava e veniva come uno di quei topi giganteschi che percorrevano le travi del tetto. * * * I Il Pelado simulò l'obbedienza, ma si fissò più che mai nel suo progetto di fuga. "Che la smettano di rompermi - diceva a se stesso mentre tornava al suo tavolo dell'archivio - questi non sono vivi perché sono astuti bensì perché il nemico li ha voluti vivi. Siamo vivi perché così vuole il nemico. Quando ha dovuto ammazzarci ci ha ammazzato; quando dovrà ammazzarci ci
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