campi coltivabili, ma un po' di foresta e l'acqua che irrigava le risaie. I coltivatori ci pagavano per avere il diritto di utilizzare quest'acqua. Il consorzio era l'associazione dei proprietari forestali. Dunque se fossi rimasto al villaggio, me ne sarei occupato. Ma mia madre diceva che bisognava fare una riforma della foresta e mi diceva d'imparare ... il latino, per poter leggere le enciclopedie di botanica. Ed è per questo che ho intrapreso gli studi superiori. Qual è stato il suo primo contatto con la letteratura? Per molto tempo ho vissuto senza avere alcun rapporto con la letteratura. Ma durante la guerra mio padre, che, al di fuori delle sue funzioni di proprietario forestale, studiava la poesia cinese, mi ci ha iniziato. E mia madre, che, cosa strana, adorava la letteratura americana, che aveva studiato all'università, a Tokio, m'ha fatto leggere Huckleberry Finn di Mark Twain. Era la mia vera scoperta della letteratura, mentre a scuola ci forzavano a leggere dei testi di propaganda militarista. Le piace scrivere? Ah sì, adoro scrivere! Mi sono capitate molte cose durante questi trent'anni: avvenimenti d'ordine politico, avvenimenti dolorosi d'ordine familiare. Ma credo di essermi potuto salvare soltanto grazie alla scrittura. Ancora oggi, che ho _cinquantadue anni, passo attraverso lunghissime fasi depressive. Mi sono imposto una disciplina quotidiana: tre ore di lettura (spesso in lingua straniera) e tre ore di scrittura. E provo un vero piacere a scrivere. I critici affermano che io soffro scrivendo e che si percepisce nella mia scrittura il "lavoro della sofferenza", come si dice in francese. Ma io sento una gioia di scrivere, esattamente come si sente una gioia di vivere. Da qualche parte lei dice di scrivere per lottare contro "qualche cosa di spaventoso, che assomiglia alla follia" ... Devo raccontarle una cosa strana: dunque, il mio villaggio è circondato da una vasta foresta e molti miei antenati sono morti smarrendovisi. Erano dei suicidi. Quando gli abitanti del villaggio perdono la testa e non possono più vivere nella comunità, si ritirano nella foresta per morirvi, abbandonando la loro famiglia e i loro beni. In realtà, non potevano arrivare a morire nella foresta. Potevano perfettamente sopravvivere, nutrendosi di bacche selvatiche, di albicocche, di radici. Essi vivevano come "matti della foresta". Ne conosco tre fra i miei antenati, che hanno conosciuto questo destino. Dalla mia infanzia, ho avuto il presentimento che sarebbe stato il mio destino: mi sarei separato un giorno dalla comunità e sarei vissuto come un ani, un orco. Questa prospettiva mi spaventava. Evidentemente, quando mi sono stabilito a Tokio, ho avuto l'impressione di aver deviato dalla mia vera vita e di essere alienato. Continuo ad avere l'impressione di essermi staccato dalla mia vera comunità. Scrivo per liberarmi da questo sentimento. Ma da Ùn altro lato, se tornassi a vivere al villaggio, proverei forse il bisogno di fuggirne subito. Sono sempre come sospeso. INCONTRI/OE Ha vissuto concretamente questo stato di sospensione? Quando ero all'università, sono passato attraverso una vera crisi spirituale. E ho desiderato ritornare al villaggio per sparire nella foresta. In quel momento, qualcuno mi'ha salvato: il professor Kazuo Watanabe, specialista dell'Umanesimo e del Rinascimento, traduttore di Rabelais e di Georges Duhamel. Ero estremista, sia nella mia sensibilità personale che nelle mie scelte politiche. Il professor Watanabe mi ha convinto ad essere più moderato, più conforme alla dolcezza umanistica. Ho capito il ruolo umanista che poteva giocare la letteratura. Questo mi ha permesso di trovare un equilibrio, quando ne sono naturalmente sprovvisto. Il riso non era un mezza per trovare questo equilibrio? Penso che la cultura di Tokio manchi fatalmente di humour. L'esempio più clamoroso ce lo dà Mishima: non aveva nessun senso dell'humour. Poiché appartenevo alla generazione successiva ero, in una certa misura, la sua negazione. Ma ci vedevamo ogni tanto e ci telefonavamo. Ogni volta mi colpiva la sua mancanza di humour. Tuttavia la sua enorme risata era famosa. In realtà io penso che non ridesse, ma che gettasse delle grida d'orrore. Probabilmente è stato per così dire sorpassato da questo orrore ossessionante, ed è per questo motivo che si è suicidato. Se il centro non ha humour, la periferia, lei, ne ha. Il mio villaggio aveva il suo modo di ridere. Questo riso del mio villaggio non ha alcun rapporto con Tokio. Ne ha uno con le altre culture popolari: ha qualche cosa d'asiatico. È legato al ridere della Corea, a quello di Okinawa. Questo riso secondo Bachtin ha un rapporto con il riso dei villaggi agricoli europei, al quale Rabelais ha dato un posto nella letteratura. Esattamente come il ridere slavo che si trova in Dostoevskij. È proprio questo tipo di riso che mi ha sempre salvato. Mia madre diceva che io adoravo inventare delle storie buffe. Se io faccio della letteratura, è probabilmente per lottare con il riso contro la paura della vita di Tokio. Talvolta lei spinge più lontano il riso: non disdegna l'humour nero, creando personaggi come "l'uomo che si restringe" o "il distruttore". Anche questo mi viene dai miei antenati. Okofuku, di cui le ho parlato un momento fa, era insieme un capo di rivolte contadine, un coltivatore di vigneti e uno che si divertiva a recitare parti comiche durante le feste. Bachtin parla del realismo grottesco: nel mio villaggio c'è un mito secondo il quale, quando un abitante del villaggio muore, entra in un albero della foresta. Ogni albero è così attribuito a qualcuno. Durante la guerra, si requisiva il legno: tre funzionari sono stati assassinati perché venivano ad abbattere degli alberi. Se avessero tagliando gli alberi, le anime non avrebbero più saputo dove rifugiarsi dopo la morte. Questo tipo di mito molto profondamente contadino è sempre vivo. Esso rimanda ai temi della morte e della rigenerazione. Questo realismo grottesco, che ho studiato in Rabelais, non l'ho certo ritrovato nella cultura di Tokio, ma esiste laggiù nel mio villaggio. 73
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