STORII/ATLAS Non che tutti fossero così entusiasti. Kipnes ricordava un racconto pieno di frasi cancellate e paragrafi ancora visibili sotto la riga nera di pennarello. A un certo punto, mentre un padre esausto stava preparando la cena per la figlioletta imbronciata, Kipnes aveva alzato il foglio controluce ed era riuscito a leggere il pensiero cancellato: "Provò l'impulso improvviso di metterle la testa dentro lo stufato". Qualche pagina dopo, la bambina non voleva andare a letto, e l'autore aveva cancellato l'impulso del suo personaggio di "trascinarla su per le scale per i piedi, e di ascoltare il tump tump tump della sua testolina sui gradini". Kipnes aveva provato compassione per la povera bambina. S tava facendo buio. Gli alberi della Novantottesima Strada Ovest apparivano sconsolati e tristi nella prima luce del crepuscolo. I loro tronchi esili e nodosi erano avvolti in tela di sacco. Una donna con una giacca a vento gonfia era inginocchiata ai piedi di uno di essi, e scavava con una paletta. Buona fortuna, pensò Kipnes. Guardò fuori dalla finestra, sperando di scorgere la donna che abitava di fronte, ma le persiane erano chiuse. Decise di uscire a comperare un giornale. Un forte vento spazzava la strada, trascinandosi dietro un turbine di spazzatura. Nuvole livide galleggiavano nel cielo. Una ragazza con un impermeabile kaki era ritta accanto al portone, quando Kipnes uscì. Chissà come gli ricordò il personaggio di un racconto che aveva ricevuto per posta alcuni mesi prima; aveva gli stessi occhi sgranati, stupefatti. Non era un racconto molto buono. "La gente mi fissa, in Broadway", cominciava. "Vedono un misterioso presagio nei miei occhi". Ma Kipnes avea comunque incoraggiato l'autrice. Era una studentessa della Columbia, viveva nell'Upper West Side, e i suoi racconti parlavano della solitudine. Non succedeva molto, in quei racconti: il personaggio principale camminava per Riverside Drive sotto la pioggia, fis- ' sava la propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozi, andava a sedersi su una panchina in Centrai Park. E allora? Tuttavia, perché mandare a una ragazza che viveva nel quartiere, per sua stessa ammissione molto bella, con "grandi occhi scuri rotondi e stupefatti", una fredda lettera di rifiuto? Kipnes le aveva invece scritto una lunga lettera spiegandole che cosa non andava nei suoi racconti. La prosa era "vivida", "toccante", "evocativa", ma i racconti erano "statici". Non c'erano personaggi, non c'era narrazione, non c'era trama. Lei l'aveva ringraziato per i preziosi consigli, e gli aveva mandato un altro racconto. Ancora assai mediocre, ma Kipnes le aveva scritto che prometteva molto bene. OK, disse a se stesso, prometteva benino. Aveva letto di peggio. Quel racconto in dialetto del sud, per esempio. ("Mabel, quante volte devo dirti di star fuori dai piedi mentre cucino?" con tutte le aspirazioni e le sillabe strascicate messe graficamente in evidenza). O quello dell'uomo che guardando la televi64 sione viene a sapere di aver vinto un milione di dollari alla lotteria e muore investito da un camion mentre attraversa la strada di corsa per dirlo ai vicini? ("Nel soggiorno buio, le immagini guizzavano sullo schermo, ma non c'era nessuno a guardarle"). Kipnes comperò il "Times" ed entrò nel locale greco all'angolo per prendere un caffè. Non riusciva a togliersi dalla testa la ragazza con gli occhi grandi. "Mi è molto piaciuto il suo ultimo articolo su 'New York !ife', gli aveva scritto la settimana prima. Era un pezzo sui bari di Greenwich Village; Kipnes aveva bisogno di soldi. "Lei ha colto alla perfezione la particolare atmosfera del Village". Kipnes le aveva risposto per ringraziarla delle "gentili parole" e le aveva detto che cominciava davvero "a vedere un cambiamento" nella sua scrittura. (Non aveva specificato se in meglio o in peggio). Lei gli aveva mandato un altro racconto e gli aveva chiesto a cosa stesse lavorando. Un racconto autobiografico sulla sua infanzia intitolato Idillio newyorchese, aveva risposto Kipnes. Stava cercando di rievocare l'ossessione per la letteratura che aveva avuto da adolescente. Quando frequentava le scuole superiori, andava alla New York Public Library dopo la scuola e sfogliava la guida telefonica in cerca dei nomi degli scrittori più famosi. Era rimasto a bocca aperta, quando aveva trovato Lione! Trilling, al 35 di Claremont Avenue, e W.H. Auden, al 77 di St. Marks Piace. Dovevano avere il telefono rovente. Kipnes era gratificato dall'interesse della ragazza dagli occhi grandi. Nessuno gli chiedeva mai del suo lavoro. (Forse che a qualcuno sarebbe venuto in mente di chiedere al prete in confessione di parlare dei propri peccati?) Le aveva rimandato il racconto, Pomeriggio d'inverno, con una lettera piena di lodi. Stava ''sviluppando un punto di vista". E ai suoi personaggi cominciava a succedere qualcosa. Aveva trovato particolarmente buona la scena al bar in cui la protagonista abbordava il piccolo editore. Kipnes aveva dovuto lodare quel racconto. Altrimenti forse la ragazza si sarebbe scoraggiata e avrebbe smesso di mandargli roba. Perché non scriveva qualcosa di pubblicabile? Ma in realtà il racconto era al di là del bene e del male. Specialmente la scena in cui il fidanzato della ragazza, un poeta di nome Sebastian, decideva di rompere la relazione, in una pasticceria davanti a St. John the Divine. ("Non siamo capaci di renderci felici a vicenda, semplicemente, Greta. Io non posso risolvere i tuoi problemi. Ho già i miei"). Kipnes si era chiesto se Sebastian sapesse del piccolo editore. Le aveva rimandato il racconto, ma l'aveva implorata di fargliene avere altri. Con l'ultimo aveva quasi fatto centro, aveva scritto, odiandosi. La risposta era arrivata in una busta di dimensioni normali. Non aveva altri racconti. Glieli aveva già mandati tutti. Ma forse avrebbero potuto incontrarsi, andare a prendere un caffè insieme. Kipnes guardò fuori dalla finestra appannata del locale greco. Quella lettera l'aveva eccitato. E se le avesse telefonato? C'era il suo nome, nell'elenco. (Quelli di
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