Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

STORIE/ATLAS ad aspettare che la donna che abitava di fronte si spogliasse per coricarsi. Ma chi avrebbe potuto sposare? Aveva vissuto con una ballerina per un anno. Poi, una sera, mentre erano seduti al ristorante, si era accorto che le sue dita avevano un aspetto nodoso. Una ragnatela di rughe si irradiava verso le tempie dall'angolo dei suoi occhi. Kipnes si era spaventato. Quando era arrivata la cena, avevano già cominciato a litigare. Lei lasciava sempre la calzamaglia in giro per la cucina. Lui non lavava mai i piatti. Lei spendeva troppo. Lui guadagnava troppo poco. Lei non aveva fantasia a letto. Lui era egoista e veniva troppo presto. Due settimane dopo avevano rotto. Come diceva la poesia? "Invecchia insieme a me ... " Col cavolo. Se proprio doveva invecchiare, Kipnes preferiva farlo solo, come un condannato a morte che rifiuta le visite. Aveva trentaquattro anni. Si stava stempiando. Cominciava ad avere suppergiù la stessa età degli uomini importanti le cui fotografie comparivano sul "Times": deputati al Congresso, dirigenti sindacali, diplomatici. Aveva oltrepassato quella che Conrad definiva la Linea d'ombra. Il giorno prima, in autobus, aveva osservato due ragazze conversare. Dovevano avere diciannove anni, a giudicare dall'aria innocente e dalla pelle lattea - niente pori dilatati, niente doppio mento, niente mascella pesante. Studentesse universitarie. Kipnes aveva pensato: non siamo coetanei. Le ragazze che aveva portato fuori all'università dovevano aver ormai passato i trenta; probabilmente avevano dei figli; probabilmente avevano la stessa età che aveva avuto sua madre quando lui era bambino. Quelle ragazze sull'autobus non sapevano cosa riservava loro la vita. La donna di fronte si allontanò dalla finestra. L'erezione si afflosciò e Kipnes pres~ su il manoscritto del marito della donna moribonda. La donna era in sala operatoria. Il marito angosciato camminava su e giù per il corridoio. Era un'epidemia? Solo il mese scorso, un professore d'inglese con cui aveva studiato alla Columbia, malato di cancro ai polmoni, aveva scritto per chiedergli di affidargli qualche recensione: "Preferibilmente di letteratura medievale. È uscito un nuovo libro su Chaucer". Non era compito di Kipnes affidare le recensioni, ma aveva promesso di mettere una buona parola per il professore. Il problema era che "New York Life" non recensiva la letteratura accademica. Aveva un pubblico più generico. Inoltre, il professore non sapeva scrivere. La sua prosa era pedante. Sta morendo, si rimproverò Kipnes. Ma la morte non aveva nessun potere sulle necessità delle redazioni. Kipnes si chiese se il professore non fosse già morto. Finì di leggere il manoscritto. All'ospedale, pessime notizie. La moglie se ne stava andando in fretta; il marito, in preda al panico, chiamava il veterinario. Il cane, se non altro, sarebbe sopravvissuto. Odiava l'idea di rifiutare quel manoscritto. "Una storia straziante e possente, ma il protagonista chissà come non riesce mai a prendere le distanze dalle proprie emozioni ... "' Il protagonista: chi voglio pren62 dere in giro? pensò Kipnes. Bisognava sempre dire il protagonista. Lei era una parola proibita nel suo vocabolario. Quella era letteratura, non vita. Squillò il telefono. Era una scrittrice che aveva mandato un pezzo sulla sua lotta contro un melanoma maligno. Aveva quarantatré anni. Kipnes sentì la camicia bagnarsi di sudore sotto le ascelle. Lui era un redattore, non un oncologo. "Allora, cosa ne pensa?" chiese la scrittrice. "Può pubblicarlo?" Kipnes allontanò il ricevitore dall'orecchio. La voce della donna era acuta, addolorata. A Kipnes non era mai piaciuta la sua scrittura. "È molto commovente", disse Kipnes. Ricordò una lettera che aveva letto in qualche rubrica di consigli di comportamento. Siate pazienti, sinceri e diretti. Un modo di fare naturale è rassicurante. Non ricordava bene perché. "Ma temo che sia un po' troppo personale per noi('. Per noi, e per me. "E ho l'impressione che lei non abbia chiarito bene cosa prova riguardo a questa ... crisi". "Lei non sa cosa sta dicendo!" sbottò la scrittrice. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime. "Mickey Wolin ne è entusiasta". Ma Wolin, il redattore della "Soho Gazette", era stato licenziato la settimana prima. "Avete paura delle voci forti. Pubblicate solo robaccia sentimentale". Kipnes menzionò il racconto sulle lottatrici nel fango apparso nel1'ultimo numero. La scrittrice riappese. Kipnes restò seduto al telefono fino a quando non si fu calmato, poi andò in cucina e si versò dell'altro caffè. Aveva fame. La vita continua. Freud sosteneva che nessuno crede mai davvero di dover morire. Freud si sbagliava, pensò Kipnes. Immaginò di trovare un nodulo o una piaga persistente, di andare a fare gli esami, di sentire il verdetto dalle labbra di un sobrio medico in camice bianco: "Temo si tratti di un tumore maligno, Mr. Kipnes". Ogni mattina per un anno si sarebbe svégliato ricordando di star per morire. Poi avrebbe cominciato a sentirsi debole, e l'avrebbero ricoverato in un ospizio del Bronx. Sarebbe rimasto sdraiato a letto in un camera buia, circondato da monache, febbricitante, dolorante, istupidito. Forse però i suoi amici sarebbero stati gentili con lui. Oppure no? Bastava guardare la scrittrice con il melanoma maligno. Se solo l'approssimarsi della morte avesse reso le persone più dignitose, più comprensive, più profonde. Ma non era così. Le rendeva solo più ostinatamente uguali a se stesse. Non c'era niente nel frigorifero tranne una bottiglia di Heineken, un'arancia avvizzita, e una ciotola di spaghetti congelati. Kipnes ponderò se uscire o meno a colazione, magirare per l'Upper West Side nei giorni feriali lo scombussolava; le sole persone che si incontravano per la strada erano domestiche, vagabonde con le loro masserizie e madri che spingevano carrozzine. Ma come facevano, quegli scrittori? Mentre Kipnes sedeva nel suo studio, in attesa della posta come uno psichiatra in attesa del primo paziente della giornata, gli scrittori battevano a macchina le loro storie, e le spedivano, insieme a buste affrancate col proprio indirizzo e a lettere di copertura ipocrite e affettate ("Gentile Mr. Kipnes:

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