INCONTRI/OZICK Mi accontenterei della storia di una singola famiglia. Ma non c'è neanche questo. I protagonisti dei loro libri sono mezzi morti. Il massimo dell'emozione lo provano nel semplice gesto di sollevare una tazza di tè e rimetterla giù. So bene cosa vogliono dire. La loro idea è quella di creare drammi istantanei, ma per me è nichilismo generico. Non hanno valori. Punto e basta. Il bello però è che alla fine la negazione dei valori fa rientrare la categoria-valore dalla finestra. A forza di insistere a mostrare esistenze prive di significato, i minimalisti ci dicono che se quelle sono vite senza senso, il senso da qualche parte deve pur esserci. Forse gli sto soltanto concedendo il beneficio del dubbio (ride). Essenzialmente ci dicono che nulla ha significato. E per me è vero il contrario. Io penso che il mondo sia popolato di una pluralità di significati. Per me è quasi un insulto ali' America che la produzione minimalista venga considerata il punto più alto della letteratura contemporanea. Questo paese è così ricco. Ci sono tante cose che continuano a succedere. È incredibile pensare al potenziale di questa terra, con le sue alleanze in movimento continuo e il concetto stesso di pluralità che qui non ha nulla di astratto. Parlare della società, della storia, delle idee, anche di piccoli dettagli, basterebbe a dare vita a romanzi straordinari. Per loro invece tutte queste cose sono escluse: niente società, niente storia, niente idee. Vuoto puro. Mortiferi e illeggibili. Non li voglio neppure sfiorare. I giovani invece li amano. Mia figlia sta leggendo Ann Beattie e le piace. Forse perché ha 22 anni e legge di tutto. Sta leggendo anche La montagna incantata di Mann. Una bella differenza davvero. Credi che il minimalismo in letteratura sia un fenomeno letterario o un sintomo sociale? La domanda tocca il punto essenziale, perché in letteratura negli ultimi anni si è sviluppato un altro movimento di enorme portata e di chiaro segno nichilista. Quel movimento di critica letteraria molto elegante e complesso che qui ha preso il nome di "decostruzionismo". Per densità e spessore l'esatto opposto dei balbettamenti minimalisti. Ma gli scopi erano esattamente gli stessi: distruggere il concetto di storia, negare l'esistenza di un centro, di un significato a cui fare riferimento. Minimalisti e decostruzionisti si sono trovati alleati nella stessa impresa. Entrambi affermano che il senso non esiste. Io allora non riesco a capire come il mondo possa tenersi insieme (soprattutto in un paese come il nostro) senza un centro a cui riferirsi, su cui trovare un punto di accordo. Almeno una lingua, una forma. E qual è il tuo centro? È una domanda grossa. Penso che sia probabilmente il contrario di tutto quello che ho detto a proposito dei minimalisti. È la ricerca di un significato. Posso anche non sapere che cosa sia il centro, ma so che ha rapporto con un significato. Non voglio vivere in un mondo sfornito di senso. E d'altra parte non credo che la meditazione religiosa o la ricerca di un S2 dio diano senso alla vita, perché lì si è in un altro territorio, che ha a che vedere con l'ignoto e non con l'organizzazione sociale del vivere. Per me è importante trovare una qualche forma di consenso sul piano dei comportamenti umani, un qualche standard sul piano dei valori e della condotta. Credo che, per concludere, debba esistere una qualche idea di civilizzazione e che ci si debba applicare con forza alla sua difesa e al suo sviluppo, proprio perché in qualsiasi società il tessuto civile è così sottile e fragile da poter essere distrutto in qualsiasi momento. Ecco, direi che il mio centro è la speranza e la difesa di quel tessuto. Ritorniamo a New York e al rapporto tra la tua scrittura e questa città. Da quanto tempo ti sei trasferita fuori città e perché te ne sei andata? Non me ne sono proprio andata. Vivo ai confini della città, in uno di quei quartieri che potremmo definire i dormitorii di New York. Questa è da sempre la mia città. Ma è vero che l'ho sempre vissuta un po' dai margini. Anche da bambina. Allora vivevamo nell'East Side, verso la ottantesima, in quella che tuttora si chiama Yorkville, la zona tedesca di Manhattan. Poi i miei si sono trasferiti a Brooklyn, a Pelham Bay, che in quegli anni era ancora piena campagna. C'era un sacco di verde e pochissimi abitanti. Lo sviluppo edilizio è avvenuto molto più tardi. Un buon posto per passarci l'infanzia; animali, alberi e grandi spazi. La mia relazione con gli edifici, i grattacieli, il cemento è tuttora periferica. Non mi sembra di sentirmeli miei, ma la città e le diversità che la città rappresenta quelle sì che le sento davvero mie. New York/garden variety: questa è la città a cui sento di appartenere. Come compare nelle tue storie questa New York? Come un luogo mentale, come una città definita dalla gente che ci vive più che dai suoi edifici. Come l'assemblaggio di mille comunità che a mala pena sanno della reciproca esistenza. Una delle poche comunità seriamente integrate e dalla vita sociale intensissima è a New York proprio la comunità letteraria. È interessante osservarla. Io, ovunque vada, mi ritrovo circondata da intellettuali, e sembra che dappertutto siano uguali tra loro. Un fenomeno affascinante. Gente che si sa porre le domande giuste, che sa lavorare con le metafore, con la metafisica, che ama le parole e che coltiva con gusto l'odio per i propri pari e la passione per gli schieramenti politici. Hanno tutto in comune e si odiano. Gente assolutamente comica, che vive la propria vita attraverso il filtro dei libri. Gente strana, buffa. Tu e io siamo probabilmente molto buffe da vedere. Molto spesso, nelle tue storie a proposito di New York e dei suoi abitanti, tu scegli la chiave parodica, satirica, paradossale. Sì, assolutamente. In particolare e fino in fondo in un racconto lungo, Golem, in cui volevo fare la parodia del sindaco Koch, dei suoi burocrati, della politica del comune di New I f
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