Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

Sia la Cognizione che il Pasticciaccio si arrestano di fronte a ciò di cui non si può più parlare: all'irripetibile o all'ininterpretabile, anziché all'innominabile. Non che se ne sia già parlato espressamente, nel linguaggio pedantesco che esorcizza la letteratura; ma tutto ne parla come dell'unico senso all'altezza della straordinaria volontà di dire manifestata dall'invenzione letteraria e dalle sue ardite macchinazioni, ellittiche non necessariamente per una scelta dell'autore, bensì per costituire comunque avventurose e improbabili approssimazioni ai limiti della parola, alla sua soglia insieme estetica e gnoseologica. L'incompiutezza dei grandi romanzi di Gadda prolunga dunque l'impossibile compimento della sua ricerca stilistica, di uno sforzo espressivo che trascende qualsiasi ragionevole intenzione, di una sfida alla profanazione dell'interprete che, prendendo a sua volta la parola, si macchierà della colpa tanto scrupolosamente evitata dallo scrittore. Per strano che possa sembrare, lo scrittore ellittico, che confida nell'autosufficienza della sua espressione, nella concentrazione e nello scorcio, e non la tradisce con nessuno "strascinamento pedantesco", è lo stesso che gareggia addirittura con la precisione dei dettagli disegnati dal Leonardo notomista, sposando la circonlocuzione virtuosisticamente protratta, alla quale lo costringe più la piena adesione agli ideali e ai limiti della lingua che non l'intento descrittivo, con l'uso delle più appropriate e sbrigative terminologie specialistiche. Anzi, è forse proprio il virtuoso dell'effabilità strenuamente perseguita a patrocinare il candore lezioso e supponente dei conati lirici e la ben più vitale disposizione all'incompiutezza e all'ellissi, non foss'altro perché i limiti accettati evidenziano lo sforzo necessario a toccarli, mentre !'oltranza stilistica gaddiana non fa altro che condurre alle estreme conseguenze l'originaria richiesta di un'esposizione letterariamente ed eticamente sostenuta. Si pensi alla "deriva tematica", come la chiama Manzotti, che gonfia fino alla digressione e all'excursus un inciso o magari un aggettivo, assecondando le ampie volute della prosa più classicamente atteggiata; e agli sconfinamenti nel parlato, che muovono dal discorso indiretto più impeccabile per giungere alla gesticolazione verbale e al ventriloquismo, in nome sempre di una rappresentazione SAGGI/MEROLA onnicomprensiva e dell'opportunità di integrare la circonlocuzione, inevitabile e ostentata, con la precisione assoluta del post-grammaticale, verso quel nome proprio dei discorsi che sono le citazioni, o con la concretezza del pre-grammaticale, verso l'onomatopea. Il lavoro di Manzotti giustifica la pretesa gaddiana all'autosufficienza, mostrando quale ricchezza di sensi veicolasse la prosa dello scrittore, e, sempre nella misura in cui si limita alla puntuale esplicitazione, collabora a dissipare l'eterno sospetto della poetica impostura. Le sue note fittissime traducono in italiano corrente il linguaggio ricercato, ne sciolgono le allusioni, ne integrano le implicazioni, ne ordinano la sintassi, dando insomma ragione della sua eccentricità espressiva. Forse Gadda non ha scritto per essere commentato, non "reclama una fitta chiosa" e non gli "si addice, con più urgenza, il genere critico del commento", come sosteneva il già menzionato Gorni, annunciando proprio quello "penetrantissimo" di Manzotti. Ma è un fatto che le note, spesso acute e illuminanti, sono indispensabili a chiunque voglia leggere la Cognizione per conto suo, fuori della scuola e senza l'aiuto del precettore personale. Ai grandi meriti di Manzotti, sarebbe ingeneroso ora opporre minute contestazioni o una certa insoddisfazione per quanto propone il suo saggio introduttivo, che andrebbe comunque discusso direttamente. Nei limiti quindi della battuta di spirito, o poco più, confessiamo che ci lasciano perplessil'incompiutezza del commento e la precarietà dell'edizione. Figuriamoci se si può ancora credere nel commento esaustivo o nell'edizione critica perfetta, o se possono essere dimenticate le "colpe" di Gadda, di un testo che pretende di essere tutto significativo, come un sensibilissimosismografo della psiche o un messaggio in codice, e che attende aggiunte e varianti con una disponibilità superiore a qualsiasi filologica pazienza. Ma, almeno per il commento, Manzotti avrebbe dovuto adottare un criterio più omogeneo nella utilizzazionedelle note e soprattutto decidere a chi il commento si rivolgesse, per non rimanere a metà tra un nobile servizio esplicativo a beneficio di tutti i lettori e la chiosa erudita, da esecutore testamentario delle disposizioni gaddiane. Per come la vediamo noi, il suo compito consisteva proprio nello sforzo di superare questo iato, sbilanciandosi semmai dalla parte del servizio di pubblica utilità e del senso della misura, a maggior ragione che il lettore comune è un "ingrediente" insostituibile nella ricetta dello scrittore, sia pure come un polo sul quale scaricare i lampi e i tuoni dell'invenzione stilistica, mentre lo studioso non può che giovarsi dell'obbligo dell'esplicitezza al quale lo richiama un uditorio non specializzato. A rincorrere Gadda troppo da vicino, si rischia di confondere critica e lettura, non solo ritenendo indispensabili le questioni che ihteressano solo gli addetti ai lavori, ma anche chiedendo al commento un gettito di trovate pari alle più improbabili curiosità del lettore e dimenticando così che persino lo scrittore illustrava incongruamente, con la ben nota incontinenza verbale, l'essenzialità e la concentrazione espressiva pur perseguite con il massimo impegno. 45

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