Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

SAGGI/MEROLA alla letteratura alla quale siamo tuttora abituati. Anche le novità introdotte da Gadda, come, con tutte le differenze del caso, quelle poniamo di Palazzeschi o di Ungaretti, restano tali per sempre: la cruna della modernità, o, per dir meglio, della letteratura nei tempi moderni. Non ci sarebbe dunque bisogno di citare Emilio Cecchi, o almeno non per quanto si cita, cioè l'impressione suggestiva di "un bassorilievo minutamente lavorato che, per una ragione o per l'altra, fosse andato in pezzi, e del quale", a eccezione degli episodi pubblicati, "si fossero irremissibilmente perdute tutte le altre parti", ricavata dalla lettura della prima edizione in volume della Cognizione. Al di là di ogni impressione, tra l'altro suggerita dallo stesso Gadda, che al riguardo parlava di "ciò che rimane, 'quod superest"', chi sfoglia questa edizione critica e si sofferma sull'appendice di frammenti inediti o sulle copiose annotazioni che quasi assecondano la giustamente sottolineata tendenza digressiva dello scrittore, può toccare con mano la singolare costituzione del romanzo. La Cognizione era votata all'incompiutezza prima di rimanere interrotta, per essere letteralmente ridotta a brandelli dall'azione evidente di due forze contrastanti, altrettanto puntigliosamente programmate e solo metaforicamente riconducibili all'alternanza dei momenti di inerzia e delle impennate d'umore nel ciclotimico scrittore: l'una.applicata al più ovvio senso di marcia del racconto e l'altra alle sue linee di fuga, alla moltiplicazione delle varianti, ai soprassalti della coscienza e, in ultima istanza, a una diversa organizzazione complessiva del materiale narrativo, che perciò alla fine risulta rappresentabile più come una costellazione o un repertorio che come una sequenza. Donde l'aggregabilità perfettamente legittima e tendenzialmente infinita di frammenti recuperati, di opere diverse e perfino di scritture extraletterarie. Non occorre aggiungere che, anche in questo caso, accanto al concreto fare dello scrittore e alla sua consapevolezza, è attivamente operante, e lo era, un'idea novecentescamente inclusiva della letteratura, troppo impegnata a cercare la differenza che la costituisce come tale, per stare appresso alle minori differenze di "generr', opere e stili. È dunque l'adozione stessa di un modello narrativo che non si sviluppa più soprattutto linearmente a rendere problematica ogni conclusione e persino la nozione corrispondente. Da che parte bisognerà cercarla? è possibile puntare su uno scioglimento o su una clausola tradizionale, dove te l'aspetteresti, quando le uscite per così dire accessorie del testo si oppongono a qualsiasi perentoria definizione, rivendicano quasi il proprio primato e suggeriscono un rapporto tanto più produttivo quanto meno convenzionale e pacificato con ciò che rimane fuori? Meglio davvero, come si giustificava lo scrittore, puntualmente citato da Manzotti, "chiudere bruscamente il racconto", anziché "dilungarmi nei come e nei perché", in un "vano borbottio, strascinamento pedantesco, e comunque postumo alla fine della narrazione". La narrazione era finita: se, come ci pare molto probabile, la proliferazione indiscriminata della scrittura è un segno e 44 Gadda nel '42, in una foto di Franco Antonicelll (Fonda:z:ione Antonicelll, Livorno). sta a rappresentare la potenza in nome della quale si deve tacere di colpo, il contraltare della crescita incontrollabile del racconto in tutte le direzioni e della sua instabilità non può essere che la consapevolezza di una vitale organicità dell'invenzione narrativa, in cui nemmeno l'eventuale conclusione ufficiale avrebbe potuto aggiungere qualcosa, sciogliere e spiegare, ma solo ribadire per l'ennesima volta l'autosufficienza di qualsiasi frammento, il suo essere un campione di una realtà, il mondo come la letteratura, inconoscibile se non attraverso campioni. Ogni diversa soluzione si sarebbe trasformata nella illusoria pretesa di dichiarare apertamente quanto invece solo con il massimo sforzo lo scrittore era riuscito a dire e a fare, e avrebbe significato dimostrarne l'inutilità e sconfessarsi. Quanto alle dimensioni del fenomeno, una indagine allargata accerterà facilmente come tutta l'opera gaddiana ostenti la propria incompiutezza, il proprio stato magmatico e la propria complessiva solidarietà, per alludere appunto a una più sostanziale e compiuta autosufficienza. Anche nelle scelte provocatorie di Gadda, come nella taccia di insensatezza che tanto spesso hanno rischiato gli scrittori del nostro secolo, è implicita l'affermazione della rispondenza a una ragione più rigorosa e stringente di quella che governa l'ordinaria amministrazione letteraria, con l'invito o la sfida a identificarla. Non liquideremmo per esempio con la comoda spiegazione della ghiottoneria linguistica e della vocazione barocca dello scrittore la ripresa ossessiva degli stessi temi e delle stesse pagine: "I doppioni li voglio, tutti, per smania di possesso e per cupidigia di ricchezze: e voglio anche i triploni, e i quadriploni". Se ha un senso quanto siamo venuti dicendo, e indipendentemente dalla discussione del più specifico tema del doppione come variante anche solo grafica e riferimento in praesentia all'estensione del paradigma entro cui scegliere, possiamo sostenere che si tratta della esaltazione della logica compositiva già ricordata e in particolare dell'enfatica esclusione di un oltre la cui esistenza viene segnalata dai reiterati tentativi di accedervi e la cui designazione viene tuttavia assicurata dall'estremo potenziale fantastico linguistico e culturale sviluppato. Con l'autore che affida la sua scoperta alla lettera del testo e il lettore che dentro di esso è chiamato a cercarla. Che è poi quanto ci capita tutte le volte che, imbottigliati dal mancato scioglimento della vicenda o insabbiati nelle digressioni dello scrittore inconcludente, siamo costretti a tornare sui nostri passi o a interrogare di nuovo il testo, per trarci d'impaccio. La cognizione del dolore, anche La cognizione del dolore, costituisce una illustrazione didascalica del principio per cui i grandi romanzi non si debbano leggere per sapere come vanno a finire. In ossequio allo stesso principio, ci siamo convinti che il Pasticciaccio incarni un po' l'ideale del "giallo", ripetendo con Borges che "la soluzione del mistero è sempre inferiore al mistero", poiché "questo partecipa del soprannaturale e finanche del divino" e invece "la soluzione" fa pensare piuttosto a un "giuoco di prestigio".

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