SAGGI/GADDA gna, andò a Parigi, indi a Oxford per cinque anni. Nel 1923 fu a Roma. Abitò per più anni in un albergo di piazza Barberini. Poco prima della guerra si ridusse nell'Ospedale delle "Suore azzurre" sul Celio, asilo a tal punto confortevole per un vecchio filosofo, ch'egli non lo ha più lasciato. Cittadino spagnolo, scrittore e poeta in lingua inglese (ma nordamericano) Jorge Santayana è soprattutto un filosofo, uno speculatore elegante; e avrebbe potuto essere, con eguale e forse maggior fortuna, un romanziere. Saggi, articoli, opuscoli, molti volumi e tutti di notevole significato, stanno a indicare i successivi termini di un'opera che si articola curiosamente in vasta sequenza conoscitiva e direi didattica. Le qualità chiare, eleganti, simpaticamente ironiche, caldamente dialettiche di uno stile magistrale sorreggono il buon polso allo scrivere, tengono dell'acre e scarna epistematica spagnola e dell"'humour" anglosassone. The sense of beauty (1896) è un saggio di estetica intuizionistica. The /ife of reason (1905) studia il meccanismo e le prove della ragione umana da "cinque" punti di vista: senso comune, vita associata, religione, arte, scienza. Il Santayana contamina un pragmatismo epistemologico con una metafisica "materialistica": non v'ha contraddizione negli ultimi due termini: si pensi a Matière et mémorie di Bergson. Scepticism and animai faith (Scetticismo e fede animale) è importante momento della sua speculazione mentre hanno carattere esegetico altre opere, come I poeti-filosofi. Lucrezio, Dante, Goethe (1905), o storico poleinico, tali: Egotism in the german philosophy (1916), tradotta in francese da Èmile Boutroux col titolo L 'erreur allemande, e Character and the opinions in the United States (1920): oppure Soliloquies in England and /ater So/iloquies (1922). Più importanti le due raccolte di versi: Sonnets and other poems (1894), Hermit of Carme/ and other poems (1911), da cui la squisita antologia Poems Selected (1923). Quanto al "romanzo" di cui l'operosa fatica di Santayana ha creduto di non poterci privare, esso ha (fra l'altro) caratteri autobiografici profondi, simile a modelli collaterali, ali' Ulysses. L'ultimo puritano è il titolo, Memorie nellaforma di un romanzo, il sottotitolo. Edito nel 1936, è apparso recentemente in ottima traduzione italiana, da Bompiani. Al teatro della Floridiana: Le corna di don Friolera Il tenente dei carabineros Pasquale Astete, detto Don Friolera, è becco, e lo sa. O meglio, non è becco "perfezionato" perché la moglie Loretita a letto col barbiere Pacecco non c'è andata ancora, ma sa lo stesso di essere becco. Ecome fate ad appurare se certe cose son vere o non vere, quando la voce pubblica le afferma e ci giura sopra? La racconta addirittura il cantastorie, la faccenda delle corna di Don Friolera. Sicché l'uffiziale cinquantenne venuto dalla bassa forza s'arrovella, grida, smania, spacca tutto, insolentisce contro 42 la vecchiarda Donna Taddea che dalla finestra strimpella un chitarrino e gli dà del cornuto a tutto spiano. Vuol fare un macello, e non lo fa quando dovrebbe; vuol tenersi la sua donna, e la spara per salvar non l'onore suo personale, ma quello dell'accolta di trascinatori di sciabola alla quale appartiene, raggiungendo il bel risultato di uccidere per isbaglio la figlietta Manolita che l'adultera in pectore si portava in braccio nella casa del barbiere. Ed è per questo che Don Friolera, il quale sta morendo di dolore, è portato alle stelle dagli armigeri che prima volevano destituirlo con infamia, mentre sul floscio costato di lui s'infliggono come frecce avvelenate i lazzi dei vicini. E la commedia finisce così. Don Ramon Maria del Valle Inclan, che Bragaglia descrive in sua favella come un caballero rinsecchito e allampanato, con un pizzo da stambecco e con un tabarro nero da cospiratore, d'oveva essere veramente un misto di hidalgo, di poeta maledetto e di anarchico individualista. Ma letterato lo era di certo, sino al midollo delle ossa. A giudicare dalla sua scrittura di romanziere, ed anche dallo stesso avvio del "grottesco" rappresentato al Teatro d'estate della Floridiana, Del Valle lnclan doveva abbeverarsi di intellettualismo. Guardate Don Estravagario, che appunto dà l'avvio alla commedia in funzione di "coro", mediante un dialogo che fa da prologo: è un fior di intellettuale sovversivo. Eppure, Los cuernos de Don Friolera scoppia di polpa drammatica come un fico maturo. Eppure, l'hidalgo cerebrale ha nella mano un vigore popolaresco, un che di sgargiante e di plateale e d'intelligente insieme che s'impone di violenza. Anton Giulio Bragaglia, il maestro di scena che ha ridotto e diretto il dramma, ha una vecchia cotta per Don Ramon e senza averne l'aria, gira e rigira, passa a parlare de La Celestina da certe considerazioni sul neo-verismo avanti lettera del suo spagnolo. Bragaglia lo sa che a creare qualcosa che regga al confronto de La Celestina non ce la farebbe il povero e grande Garda Lorca, il quale, d'altronde, è fuoco e sangue. Ci vorrebbe un altro Cervantes, o quanto meno quel Fernando Rojas che scrisse il capolavoro senza dirlo a nessuno e senza nemmeno firmarlo. Ma un suo aspro fascino Del Valle lo ha. Antimilitarista, prende di petto la casta militare; indubbiamente cattolico da buon spagnolo, ma anarcoide, come ho detto, tira botte da orbo contro l'istituzione del matrimonio. E quanto alle donne, si salvi chi può! C'è poi, nella commedia - curioso a rilevarsi in un limitato genio del Sud - la tendenza ad adoperare, con la stessa tecnica, l'interpunzione scenica di Shakespeare. I cambiamenti di scena a vista (quattordici nella riduzione di Bragaglia) ricalcano quell'immenso modello, ma precorrono di circa trent'anni l'imitazione che oggi se ne fa dalla così detta giovane regia. Né basta: di riverberi shakespeariani nella commedia ce ne sono altri, e sostanziali: Ramon del Valle Inclan ha voluto fare di Don Friolera un Otello comico; di Donna Loreta una Desdemona carnale, un po' svanita: non priva di inibizioni; un Cassio primitivo e claudicante del barbiere Pacecco, e un Jago da suburbio della micidiale pettegola Don-
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