FILOSOFIETEPPISTI Raymond Queneau Buona parte della "strana guerra" del 1939-40 l'ho passata in-un deposito di rifiuti dell'esercito francese: infermi, invalidi, inabili, comunisti, anarchici, dimenticati, mezzimatti, sconvolti. Si beveva molto, principalmente vino rosso. Gli svaghi erano tanti: il sonno, le partite a carte e la scuola etilica. Partecipavo attivamente a tutte queste occupazioni, dedicandomi in particolare al consumo di rosso. Il fatto che fossi un intellettuale riempiva di stupore i miei compagni. Un giorno uno di loro mi chiese cosa facevo nella vita; imbarazzato, gli rispondo: professore (non era vero). Di che? Filosofia (figuriamoci, anche se un diploma ce l'ho). Ah! ah! il compagno mi squadra con simpatia, si ricorda dei bei litri di rosso scolati insieme, e conclude: - È vero, ho sempre pensato che eri un filosofo - (non disse: un professore di filosofia). È assai raro vedere tanti filosofi t·utti insieme (non sto parlando, è chiaro, dei congressi), tuttavia me ne era capitata l'occasione qualche tempo prima, frequentando il Luna-Park. C'era un'attrazione veramente attraente che si chiamava il Palazzo delle Risate. Naturalmente era una stupidaggine, con i toboga, le scale mobili, gli scarrozzamenti e i soliti scherzi. Ma la conclusione era davvero interessante, per gli amatori s'intende. Una corrente d'aria sollevava la gonna alle ragazze, che venivano tenute ben ferme da salariati energici. Bisogna aggiungere che era possibile evitare quel percorso assurdo pagando cento soldi invece di un franco; allora ci si andava a sedere proprio davanti all'uscita. Era un buon posto. Sopra la porta da cento soldi c'erano scritte queste parole: Ingresso dei filosofi. Vediamo così configurarsi i primi lineamenti del tipo umano detto "filosofo". Il suo status militare è sempre defilato, o addirittura deficiente. Il suo status sociale: non sempre riconosciuto. Rivendica poco, ma sa pagare quando può servire a evitare inutili calamità; quando ci vuole ci vuole. Apprezza l'alcool e le donne, ma ne ammette i succedanei: le bevande di pessima qualità e le polluzioni (diurne e notturne). Quest'ultimo punto (la proiezione più o meno delirante del seme umano) evoca evidentemente il personaggio di Diogene. Mentre si stava manualizzando ("cheirourgon", dice Diogene Laerzio, VI, Il, 69) in pubblico, alla gente che guardava stupita rispondeva "malinconicamente": ma perché lo sfregamento del ventre non fa passare anche la fame? È lecito chiedersi se sia giusto considerare Diogene un filosofo. Quest'angoscia di appagare il bisogno di mangiare non rivela una sorta (sì: una sorta) di rivolta contro la condizione umana? Che difficilmente può essere considerata filosofia nel senso stretto del termine, condizione determinata dal procedimento stesso di questa ricerca. Sì, forse Diogene era un voyou, un teppista. Proprio come quell'Onan di cui parla la storia sacra e che preferiva sputare per terra ("ekséchéen epì ten gen", dice la Genesi, XXXVIII, 9) piuttosto che arrampicarsi sulla cognata nonostante l'ordine di suo padre. Il padre si chiamava Juda. E più tardi fu lui a far fare due gemelli a quella donna, che si chiamava Thamar e che aveva scambiato per una puttana. Juda era un brav'uomo ma Onan, suo figlio, a quel tempo era già stato soppresso dal28 l'Eterno (così lo chiamavano) a cui egli (Onan) non piaceva affatto. Sposò dunque la sua immagine E immaginandola sempre più attraente Le prodigava un omaggio Che lei stessa non riusciva ad ottenere. Dio lo vide e disse queste parole: "I miei occhi non possono tollerare Questo piacere ridicolo e sciocco Che sarà il piacere delle scuole. Questo balordo muoia". È morto. scrive Parny nel suo poema immortale, ma sfortunatamente troppo poco noto: Le galanterie della Bibbia. Ma questo è catechismo. La questione che si pone, del tutto futilmente ma perché no, è sapere se un altro Judas (che si scrive con la s per via del greco, mentre l'altro, trascritto dall'ebraico, non la prende, almeno è quello che suppongo) aveva dei figli e se uno di loro si chiamava Onan. Judas, l'Iscariota, del resto era un brav'uomo, certamente un traditore, uno spilorcio, ma un brav'uomo: più teppista che filosofo. Ma quest'individuo è stato sfruttato troppo dalla teologia; è preferibile cercare esempi meno adulterati da secoli di commentari, e lasciare il mondo semitico per tornare al mondo greco, dove naturalmente si erge Socrate. Durante la "strana guerra" di Potidea, mostrò tutte le qualità del filosofo: soldato di fanteria, quando beveva "superava tutti" (Simposio, 220, A); e quando l'esercito era in rotta, batteva in ritirata con decisione (id. 221, A). Era pederasta, e anche cattivo marito. Due canaglie reazionarie, Anytos e Mélétas, lo accusarono di corrompere la gioventù. Così è uno dei pochi filosofi che non sia morto nelle sue ciabatte (se facciamo eccezione per quelli perseguitati dai cristiani e dai nazisti). Nella sua Apologia, Platone gli fa raccontare (29, A): "In realtà non faccio altro che circolare dappertutto". Avendo ottenuto un permesso (ancora la famosa campagna di Potidea), si affretta, dice, "ad andare nei luoghi dove era mia abitudine passare il tempo" (Carmide, 153, A), cioè a mettere sotto i giovani efebi. In effetti, l'etimologia della parola voyou è assai oscura. Non ritornerò su quella di philosophe che lo è altrettanto ma a proposito della quale si troveranno nei manuali (vedi, vedi!) numerose indicazioni. Voyou viene da "voir" (vedere) oppure da"voie" (via)? Dauzat fornisce le seguenti indicazioni: "(1830, Barbier, pop.) der. probabile di voie, cioè colui che vagabonda, piuttosto che forma dial. di voyeur, curioso (voyeux, XVII secolo, Saint-Simon). Il suffisso è dialettale (Ovest o Sud) e corrisponde a-eur o a-eux". Il buon veccho Elwall dà come traduzione di voyou: street-Arab, e il Langenscheidt, più moderno: Strassenjunge (pÒi: Taugenichts, ah! poi: Lump - ah! ah!). Nelle sue Eccentricità del linguaggio (1855) Lorédan Larchey scrive, s. v. "Monello, monella, che vagabondano sulla pubblica via. Per estensione, è detto voyou l'uomo che possiede tutti i vizi del popolo
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