I "gemelli Ruggeri" I soli nuovi e bravi (foto di Andrea Fabbri Cossarinl). ti ultimi (per quanto riguarda il 1988) nella catena delle corporazioni (dopo i ferrovieri, i capistazione, i direttori di macchina, i piloti, gli orchestrali, i controllori), un po' perché continuano a mettere a repentaglio le vacanze di mamme e papà. Eppure le ragioni della categoria, per quanto corporazione, sono tante: bassi salari, nessuna qualificazione, tristezza e pena dell'insegnamento, poche soddisfazioni, scuola in affondamento rapido. Eppure nessuno, neppure il Pci ha saputo mostrare, per mettere alla prova la corporazione e la categoria, un progetto che fosse per così dire idealpoliticoculturaleconomico, che proponesse: vi paghiamo di più per studiare di più per insegnare meglio e più a lungo, pena una rigorosa selezione. D'altra parte i nostri professori, Gilda o Cobas, hanno rinunciato a qualsiasi idea che lasciasse presupporre una ipotesi del genere, definibile "complessiva", affidandosi al "rivendicazionismo", comprensibile dopo tanta "complessiva" trascuratezza. Ma così hanno fatto il possibileper lasciare spazio alla battuta qualunquista del mio panettiere, che afferma: "Guadagnano anche troppo con tre mesi di vacanze". Lui che su due panini ci fa una tara di diamanti. Mi sono lasciato distrarre dal panettiere, fino alla condiscendenza, quando ho visto alzare, in una manifestazione dei Cobas a Roma, un cartello che se la prendeva con un certo "Gallonao". Qui nessun inganno. Gallonao sta per Galloni, ministro della pubblica istruzione, secondo il linguaggio del cacao meravigliao, secondo cioè una presunta invenzione arboriana, che avrebbe poi una ascendenza nel "Beruscao" di Beruschi, stile Drive In. Siamo lì: l'intellettuale e sinistro Arbore ha poco da storcere il naso. L'insegnante che alza il cartello "Gallonao" ha poco invece da ridere, perché lui che dovrebbe insegnare e dovrebbe anzi rivendicare l'esercizio migliore di questo suo diritto-dovere si impossessa del linguaggio un po' scemo, soprattutto massificato di una trasmissione televisiva che si go·deva nella pretesa di sembrare controcorrente, ma che di controcorrente non possedeva nulla ed esprimeva ormai soltanto il conformismo del finto provocatorio, del finto graffiante, del finto naif. Siamo un po' apodittici. Vogliamo ripetere che l'arborao non rompe più gli schermi della comunicazione televisiva e radiofonica attraverso i meccanismi assurdi e paradossali della sua comicità. Rompe soltanto, perché si ripete, rimanendo a navigare sull'onda, come fosse per pubblicità dell'olio solare (o della Birra o della Tipo, che poi come Arbore dimostra, sono la stessa cosa nella stessa formuletta), semplicemente allietando senza nulla più turbare, nemmeno una tradizionale abitudine al riso tradizionale. Ciò che prima segnava l'assurdo e il paradosso è stato· assorbito e codificato nella norma, l'avvocato Agnelli non grida più "Juve Juve" (come ai tempi di "Alto Gradimento"), il professor Aristogitone non racconta come sta la scuola, Verzo non celebra più nel suo tema il rituale della famiglia nazionale, Ferrini non mima l'illimitata fiducia di una generazione di comunisti nel paese guida. Si torna a far satira (se satira si può dire, per il tono e il bersaglio) sulla tv: così trionfano il quiz, la ruota della fortuna e le ragazze coccodè. Se prima la comicità poteva apparire contro gli equilibri, adesso è vistosamente per gli equilibri, quali che siano: politica, costume, società. Perfido destino ... Ma non è capitato solo a Renzo Arbore. Con nostalgia (scusatemi la nostalgia) e con curiosità ho atteso la prima puntata dello show di Dario Fo, che avevo lasciato, televisivamente,all'epoca della "Canzonissima" censurata. Vent'anni fa. L'avevo lasciato dirompente, cattivo, aggressivo, feroce. Così almeno mi sembrava, nel suo contrapporre frenetico padroni a operai, poveri a ricchi, felicia infelici, irriverenti proletari a piatti borghesi, inventando gesti e parole, smorfie e balletti. Non mi ricordo se la sua "Canzonissima" funzionasse meglio di quella del molleggiato. Però era una novità, per quelle parole e per quei gesti ed anche perché ripetere "padroni" non era costume d'allora in tv. Dario Fo, con pochi altri, è rimasto con i suoi "padroni" e non si è accorto, evidentemente, della trasformazione, pesante e profonda, ma insieme sottile, ambigua, poco chiara. Non ha rinunciato però a vivere il suo ritorno senza rendersi conto che il suo "padroni" avrebbe potuto gridarlo ai quattro venti, tanto nessuno ci avrebbe fatto caso. Così, di errore in errore, Dario Fo non ha saputo tacere una sorta di vittoria sulla censura e ha concluso ogni puntata del suo serial con il coretto "che festa alla Rai, non si censura mai". Non si è accorto, ahimè, che di censura non c'è proprio più bisogno. Così il risultato non può che essere stracco, fuori dal tempo, fondamentalmente nostalgico, IL CONTESTO salvo riscattarsi quando entra in scena lui, perché capita, conoscendolo, di poter anticipare la battuta e persino il movimento del piede. Noi c'eravamo. Gli anni consumano tutti. Persino quelli come Fo, che non avendo mai capito di politica non ha tentato neppure di rivaleggiare con la nostra "trasformazione", oltre che, banalmente, con gli anni. Tante strade portano allo stesso posto: alla omologazione, all'inefficacia e quindi ali 'ingratitudine (nostra nei confronti di Dario Fo, ad esempio) e all'inutilità. L'insegnante del Cobas non avrebbe alzato mai un cartello ispirandosi a Dario Fo. Ha preferito Arbore, schierandosi con la moda e con l'immobilità. Ma come rimproverarla? Non è che il maccheronico di Fo avrebbe potuto di questi tempi garantirgli un qualche grado di eversione. Siamo finiti un po' tutti così. Senza disperazione. Forse si dovrebbe tornare a discutere di politica e proporrei allora la televisionedi Gorbaciov come televisioneguida. Ho appena visto quella trasmissione girata e diffusa in Urss sui processi a Bucharin. Che non era soltanto una ricostruzione documentaristica, relativa a quei tempi drammatici. C'erano anche le discussioni di oggi, all'unione degli scrittori, tra gli storici, tra gli insegnanti di storia, tra i veterani carichi al petto di medaglie. Ho conosciuto il telegrafista di Lenin, la guardia del corpo di Lenin, l'autista di Lenin. Non posso negare l'emozione, mentre sullo schermo si ripetevano certe notizie e certe date: iscritto al Partito Comunista dal 1917, iscritto dal I921, iscritto dal I9I7... Ma mi ha colpito la sincerità delle riflessioni, la profondità dei giudizi, la passione, che la telecamera riprendeva con verità illuminante. Le domande che si rincorrevano: ma i giovani come giudicheranno quegli eventi. La coralità dell'impegno intorno ad un progetto comune. Qui c'è il rischio della retorica realsocialista. Ma mi veniva di dire: pensa un po' se anche in Italia si discutesse di politica a quella maniera. O addirittura: pensa un po' se ali' Andreotti, rivedendo Dario Fo venisse in mente di ridiscutersi pure lui e la strage di piazza Fontana, la morte di un anarchico, le trame nere, le bombe ai treni, i servizi segreti, la mafia, il caso Moro ... Chi lo pretenderà mai, da lui? Teniamoci il Testimone e le ragazze coccodè. 25
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