E comuni sono i limiti, di una sostanziale assenza di grandi passioni intellettuali (ma anche spettacolari, romanzesche, ecc.), di una propria visione delle cose, anzi attenti a smussare quel tanto di intelligenza del reale e in esso delle contraddizioni e dei sogni della gente che, sia pure per il tramite di una raffinata letterarietà nella Blixen, di una poesia naturalistico-morbosa in Williams, era presente nei testi di partenza. Eppure, dentro questi limiti, Axel e Newman si muovono con un gusto, una finezza d'immagine, di ricostruzione ambientale, di direzione degli attori, con una partecipazione vissuta che ormai non è più dato incontrare in un cinema non tanto "impuro" perché attraversato da altre istanze e idee e pulsioni, come si teorizzava negli anni sessanta, quanto trasandato, imperfetto non per rifiuto polemico del professionismo, ma per incapacità professionale. Axel è un vecchio routinier, attivo dagli anni cinquanta tra Danimarca e Francia, e più in teatro e alla televisione che al cinema cui ha dato un paio di opere di decoro tutto "nordico", cioé curate e in fondo accademiche, da festival insomma, e qualche più sanguigna saga medioevale-barbarica. Mai uscito da un gusto locale, con Il pranzo di Babette gli riesce una sintesi di più vasto respiro delle sue due matrici culturali: una protagonista e un'attrice francese, Stéphane Audran, duttile e carismatica, una scrittrice eccentricamente nordica e una schiera di vecchi attori teatrali, alcuni bergmaniani (Jarl Kulle), i più dreyeriani, di scuola ma di alta scuola, e attraverso di loro l'incontro tra una visone del mondo stoica, terrena, artistica, "parigina", e una austera, ascetica, penitenziale, luterana, che sublima un duro rapporto con una natura aspra, nemica e romanticamente malinconica. L'interesse di Axel, sia chiaro, è tutto letterario, estetico, da piccolo e un po' scenografico teatro morale. Come una verità cercata in superficie, nelle forme di vita, nelle linee e nei colori di un paesaggio, senza più. Del racconto, taglia via le radici politiche. Che Babette fosse una petroleuse nella Comune di Parigi, era un elemento che ne informava i comportamenti, anche quelli più quotidiani ("Babette fece un passo avanti. V'era qualcosa di formidabile in quel gesto. Era venuta avanti così, nel 1871, per piantare una bandiera rossa su una barricata"), ne istituiva la grande contraddizione di artista (gli oppressori, gli affamatori del popolo contro cui ha combattuto sono anche la "sua" gente, la sola "allevata e allenata a capire quale grande artista sono io. Potevo renderla felice"). Non è solo un Caso della vita. Di riflesso, il film punta più sull'enigma1ici1à del personaggio, il suo charme di conquistatrice e la sua morale stoica, che non sulla sua profondità, di essere nei cui "abissi v'erano passioni, ricordi e desideri di cui esse (le due anziane sorelle) non sapevano nulla". Non sorprende allora che l'occhio di Axel, con il suo minuzioso realismo che riduce la componente visionaria della Blixen, sia nel suo aspetto ideale sia in quello leggendario, appaia nella prima parte troppo descrittivo, di figurine più che personaggi, dettagli su dettagli, anche dispersivi. Poi, il pranzo che sublima il carattere sacrale e cerimoniale che hanno queste scene al cinema. Con in più il simbolismo religioso dei dodici commensali. Portata dopo portata, quaglie "en sarcophage" dopo blinis Demidoff, sulla morale della rinuncia e dell'autopunizione che ha frustrato le vite dei protagonisti, finisce per vincerla un'altra spiritualità, quella dell'Artista. "Misericordia e verità si sono incontrate", commenta il vecchio generale. La Grazia ha da essere cercata nell'universo, e l'arte, un'arte fine a stessa, forma totale di vita, ne è il divino tramite. Non Stéphane Audran in Il pranzo di Bobette. In basso: John Malkovich IL CONTESTO e Karen Allen in Zoo di vetro. è una gran morale, ma si accompagna a un insolito piacere del testo, che doppia il piacere della vita materiale in una chiave sensuale; ricchezza di impressioni e colori, "calda" definizione di spazi (la sala e il dietro le quinte della cucina) e figure, caratteri, reazioni, sottili scene di sguardo e di ascolto, di confessione e di estasi. Da narratore anche troppo innamorato dela propria storia, e tutto a fior di pelle. Resta che questo è forse troppo poco per farsi davvero scoperta della dimensione del reale e del ruolo ambiguo e tragico dell'arte in rapporto ad esso, come, ad esempio, in Storia immortale che Orson Welles aveva tratto con sinuosità notturna da un altro dei "capricci del destino" della Blixen. Lo zoo di vetro, da parte sua, è un film quasi teorico, anche se per nulla intellettualistico, anzi concretissimo, narrativo, partecipato. Newman affronta il testo di Williams con totale rispetto, non lo considera affatto datato, non cerca di "attualizzarlo", e in effetti è uno dei testi in cui meno sono presenti l'isterismo, il gusto della decadenza e dello scandalo tipici di Williams. Certo, lo sfondo è quello del Sud, del suo disfacimento, ma esso agisce in maniera più sottile, nei rituali da ragazza da marito, ad esempio, che la madre crudelmente impone alla figlia zoppa. Il tono con cui è narrata questa storia di vite perse, di losers che si dilaniano in uno squallido appartamento di St. Louis, è quotidiano, sciolto, di repressione cechoviana. Uno squarcio di realtà minima di anni trenta, che all'inizio del film (e della pièce) è già stato cancellato e che può essere ricuperato soltanto in flashback. A chi può interessare oggi Tennessee Williams? Il "suo" pubblico non va più al cinema. Ci può essere un vago interesse in questo aspetto di deriva esistenziale. Ma le derive di oggi non si consumano nel chiuso di una stanza e del sogno, sono tutte proiettate fuori, per le strade. Resta la parola poetica, densa, intensa. Newman affronta il testo di Williams come una perfetta macchina teatrale. Il suo rapporto è quello del recupero e invenzione di una messinscena, quella che ne era stata fatta con gli stessi attori, tranne Malkovich, a teatro e questa sua al cinema, umile e intelligente, asciutta. Nessun "tradimento" del testo, nessuna apertura verso più o meno artificiosi "esterni". Un huis-clos rigoroso di ambienti, ma pure di personaggi chiusi in se stessi. Crea un interno preciso, un "clima" unitario, aiutato dalla straordinaria, "madida" fotografia diMichael Ballhaus, vecchio compare di Fassbinder; ma ancor più è interessato a lavorare sulle differenze e gli squilibri di questo mondo (anche con belle soluzioni formali, 23
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==