Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

siede maggiore densità di scrittura, questa è compensata ampiamente dall'assenza di consapevolezza dei propri limiti: difetto, si sa, che può essere dei grandi, ma solo se sorretto da autentico genio. Di tutt'altro tenore è invece La lepre (Garzanti, pp. 184, L. 20.000), utima prova narrativa di Vincenzo Cerami, romanziere e sceneggiatore noto al grande pubblico soprattutto per Un borghese piccolo piccolo (Garzanti 1976), da cui l'omonimo film di Monicelli con Alberto Sordi. La lepre è, in prima approssimazione, un "componimento misto di storia e d'invenzione", cioè un romanzo storico: a partire, se si vuole, dalla scelta di situare la narrazione in un Seicento di poco posteriore a quello dei Promessi sposi, e per di più segnato dalla diffusione socialmente rilevante di una malattia infettiva: di natura però, come si vedrà, molto diversa dalla peste, e non solo per la molto minore rapidità e spettacolarità del contagio. Cerami però, con programmatica riduzione di campo, rende del tutto marginale la Storia, e muove piuttosto, dichiaratamente, dall'intenzione di scrivere una "cronaca", qualcosa cioè insieme di più limitato e di più "vero", se si assume come misura della verità dei fatti narrati la loro verificabilità, il loro discendere da prove e testimonianze supposte attendibili: di qui l'insistenza, esibita, sui "documenti" che sorreggerebbero il procedere del discorso. Ma il narratore non vuole mostrarsi ingenuo: sa bene che lo statuto della "verità" è più che incerto, e addirittura, con una movenza nietzschiana, ha "paura di non poter mai, perché è impossibile, liberarsi dal pregiudizio della verità". Egli così ci avverte, costantemente, delle sue mosse, delle interazioni fra dati verificabili e integrazioni del narratore, quasi il suo compito si limitasse a riempire le lacune, a stendere ponticelli sui vuoti. In questo modo la vicenda de La lepre diventa anche pretesto per una riflessione metalinguistica e meta-letteraria, nella quale lo scrittore, sotto l'apparenza di legittimare "scientificamente" i fatti, abbastanza sottilmente ne fa trapelare la natura necessariamente d'invenzione, fantastica anche se non arbitraria. Forse però Cerami eccede nell'interrompere il ritmo della narrazione con lo svelamento-nascondimento delle regole del suo sviluppo, e credo proprio che questo sia un difetto: qualche volta era meglio lasciare il lettore alla sua non problematica voglia di sapere "come va a finire". Anche perché Cerami questa voglia sa ben suscitarla, e stimolarla via via, e quando concede a sé e a noi i piaceri del raccontare disteso La lepre è libro di un certo fascino. Ma, a sgretolare ulteriormente la sua provvisoria attribuzione al genere "romanzo storico", il libro di Cerami ottiene questo risultato puntando molto decisamente su vicende individuali, di personaggi isolati anche fisicamente nel reclusorio di San Clemente. Per molti aspetti succede a Cerami esattamente il contrario di quanto succede a Rugarli: dedicandosi senz'altro, nonostante le prime apparenze, a una privata storia di passione, e per di più situata in un passato abbastanza remoto, egli riesce ad agganciare l'emotività soggettiva del lettore presente ma anche a toccare spunti proble- . matici di più ampio interesse, laddove La troga, cimentandosi velleitariamente con i destini generali e la storia dell'oggi, o del1'altro ieri, finisce per arrotolarsi su private ossessioni. Ho parlato, poco prima, di Manzoni: ma più pertinente, per La lepre, è il riferimento alla Storia della follia di Foucault, che ha suggerito a Cerami di scegliere, 'del passato, il momento in cui, prossima all'estinzione la lebbra in Occidente, i lebbrosari venivano riciclati per altre forme d'internamento. Soltanto che, laddove Foucault aveva magistralmente mostrato il lento delinearsi, da un coacervo d'internati per motivi assai diversi, della figura del "pazzo", Cerami, semplificando molto ma forse anche per ottenere più immediata esemplarità e presa emotiva nell'epoca dell'AIDS, immagina che la nuova destinazione dei reclusori sia l'isolamento della sifilide: di una malattia cioè tutta stretta alla dimensione sessuale. Metafora densa, per quanto tutto sommato atemporale, La lepre dispiega, a partire dallo scontro tra il potere e l'amore (inteso sia come sesso che come passione), tutta una serie di questioni "forti"; il confine incerto fra sanità e malattia; il peso e direi quasi più la durezza della fisicità, della corporeità nell'esistenza di un uomo; l'inquietante, assoluta soggettività della gioia; l'inafferrabilità della donna ("la lepre"), ma forse più del IL CONTESTO Gesualdo Bufalino (foto di Ferdinando Sclanna, da Volto d'autore, Salone del Libro di Torino). presente senza storia di una felicità raggiunta nel ricongiungimento all'oggetto d'amore e di desiderio. E se Rugarli legge nel mondo una sorta di necessaria e generalizzata colpevolezza, meno apoditticamente Cerami suggerisce la possibile reversibilità del rapporto fra dominatore e dominato, poiché il legame fra i detentori del potere e le istituzioni coercitive eh' essi governano può essere per certi aspetti più vincolante e pervasivo di quello che risucchia il recluso nella terra di nessuno del1'uni verso concentrazionario. Il tema dell'ambiguità del potere, in un contesto, ancora, di reclusione, è anche uno dei cardini dell'ultimo libro di Gesualdo Bufalino, Le menzagne della notte (Bompiani, pp. 154, L. 18.000). Solo che Bufalino vi aggiunge, in modo suggestivamente inquietante ma un poco anche ideologicamente preoccupante, il tema della natura impura, e anzi in molti casi decisamente sospetta, della militanza politica, della lotta "contro il tiranno". Singolare caso di scrittore esordiente a sessant'anni, da Diceria dell'untore (Sellerio, I98 I) Bufalino si è forse dato fin troppo da fare per recuperare il tempo perduto: questo (se sbaglio è per difetto) è infatti il suo undicesimo libro. È anche però, va detto subito, uno dei riusciti. Storia di quattro condannati a morte che si raccontano ognuno un episodio della propria vita, per trascorrere le ore che li separano dalla decapitazione, ma più ancora per cercare di capire se l'esistenza abbia avuto un senso, Le menzogne della notte non accampa in prima istanza alcuna pretesa di rapporto, né lineare né, per così dire, biunivoco con la Storia, ma esibisce anzi la propria esclusiva appartenenza alla "letteratura": dall'eleganza screziata di arcaismi del lessico e della sintassi, alla parentela strutturale dichiarata con i modelli più illustri (e più scontati) del genere "racconti a cornice", cioè Le mille e una notte e I/ Decameron. Accortamente però Bufalino aggiunge a quest'impianto l'espediente più romanzesco della suspence: i quattro condannati ricevono dal governatore (a sua volta condannato, ma dalla tubercolosi ossea) la possibilità di essere tutti liberati se uno solo di loro svelerà il nome del capo della congiura anti-tirannica che li accomuna. Su questa situazione di dubbio, che impone ai prigionieri un esame ancora più radicale e spietato delle proprie ragioni e motivazioni, s'innesca un ulteriore congegno narrativo, che raddoppia lo spessore della vicenda, e poi impone una sorta di raddoppio del raddoppio: non lo svelerò, per non togliere al lettore il pia- · 21

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