ILCONTUTO anche quella di fare il ritratto di una città, in un determinato momento - quel "momento" che solo oggi si comincia a narrare con efficacia: con questo romanzo, con il saggio-diario della Passerini, con il saggio di Peppino Ortoleva. La validità sociologica di Un giorno e mezzo è certo argomento secondario, nel giudizio che sul romanzo si deve dare; ma pure ha il suo peso, perché è indubbio che solo chi ha vissuto in prima persona e ben conosciuto in prima persona quel momento e i suoi umori e slanci, le sue cadute e miserie, le sue contrastanti tensioni, le sue giovanili bellezze come le giovanilmente vissute e bensì più che senili frescacce ... ; e solo chi ha ben pestato selciati e asfalti dei vichi e frequentato sia bassi che ville, e letto di storia ed economia, e fatto lotte e organizzato gruppi; poteva permettersi questa sintesi, anche autoironica, di una società e di un movimento. Pel' tutto questo Un giorno e mezzo, estraneo ai livori degli sconfitti, come ai sociologismi distanti dei nordici come agli idioti vagheggiamenti dei francesi, finisce per essere il romanzo di Napoli, il primo di tanto spessore e risultato che noi conosciamo e il primo cui affideremmo, per chi non l'abbia "vissuta", l'introduzione all'essenza "primaria" della sua cultura (cioè sia chiaro, alla parte migliore di quest'essenza, ché molto poi viene taciuto, e altre realtà restano fuori da questo giorno e mezzo di un anno lontano), di una città dove la storia è sconfitta e dove Pio Pia (un nome maschile-femminile, incontro di contrari e a dominante religiosa, ma senz'altro pagana, e femminile, ché Pio Pia è una bambina) avrà un futuro che somiglierà molto probabilmente, nonostante l'Europa e nonostante la storia, a quello delle sue mamme, solo con un tanto di maschile in più, nelle future e inevitabili spinte a cambiare. STORIA,MENZOGNA, AffUALITÀ Gianni Turchetta La letteratura, si sa, non è giornalismo, e intrattiene con il presente un rapporto a molte facce, non lineare, spesso conflittuale. È vero però che nella nostra letteratura più recente il solco fra la letteratura e le cose si è ulteriormente approfondito, per motivi, credo, assai più d'ordine sociologico (o socio-psicologico) che strettamente letterario. Questo scollamento è ancora più grave se si prende in considerazione non tanto, genericamente, il rapporto con la realtà, quan20 to quello con la storia, con i destini collettivi. Ha destato perciò notevole scalpore, in questi mesi, l'uscita di un romanzo come La troga di Giampaolo Rugarli (Adelphi, pp. 248, L. 18.000), del quale, a detta del risvolto e dei numerosi recensori, l'argomento sarebbe nientepopodimenoché la storia italiana degli ultimi dieci anni circa, con tanto di delitto Moro, fusione tra criminalità comune ed eversione politica, connivenze fra istituzioni e terrorismo, trame internazionali, logge P2 e compagnia bella. La "troga" è "una setta, una società segreta, qualche cosa di simile a una loggia massonica" che, nata con l'intenzione di "restituire dignità al peccato", e dedita perciò a "Bagattelle. Qualche orgia, qualche messa nera, qualche profanazione di tomba", rapidamente si politicizza e, piena com'è di "personaggi conosciuti, potenti, ricchi", passa a fabbricare non "più peccati, ma volgarissimi delitti politici", a partire dalla bomba "in una banca di una grande città", per proseguire poi in un crescendo selvaggio, fino a una situazione in cui "si sequestrava, si storpiava, si uccideva ogni giorno". Già questa breve citazione avrà mostrato, con le sue sequenze ternarie (tre sostantivi, tre aggettivi,. tre verbi), la foga accumulatoria di Rugarli, che scorre torrenziale, e ripetuta a tutti i livelli del testo, sotto il teorema di fondo, che è poi quello della grande congiura, tesi di assoluta banalità anche se forse non del tutto infondata, e comunque qui enunciata in modo molto pasticciato. Soprattutto però è grave che, data la prima enunciazione, generica e definitiva, l'autore non ci dica poi null'altro, e si limiti per tutto il libro a farcire con monotona dovizia di sempre nuovi, iperbolici orrori la sua ossessione. Nella quale, per una preoccupante consequenzialità logico-fantastica, le colpe di molti e le colpevoli connivenze di moltissimi e l'indifferenza di quasi tutti comodamente si fondono in un "siamo tutti colpevoli" indiscriminato che assomiglia un po' troppo a un "nessuno è colpevole", e già molto esplicitamente si traduce in uno sconVincenzo Cerami (foto di Roberto Penna). tato "non c'è niente da fare": "Abbiamo bisogno di amnistie, non di rivoluzioni". Di fronte a questo mucchio selvaggio l'atteggiamento del narratore (e, con differenze minime, di tutti i personaggi) è di rabbioso disgusto, a cominciare dalle numerose associazioni para-etimologiche e paraanagrammatiche raccolte nella parola-valigia "troga": il verbo greco trago ('·'corrodo, rosicchio piano piano"), doga, troia, toga, tregua, strega, strango-lare, tanga, trucco e altre. Ancora, come si vede, barocca accumulazione; ma sono solo variazioni sul tema già dato, che non aggiungono spessori di significato e tanto meno riescono ad assumere forza di simbolo. Anche sul piano narrativo, del resto, il libro stenta a trovare coerenza: omicidi e suicidi volontari e involoµtari, pestilenze micidiali e piaghe personali procurate, pestaggi e bombe, lenocini e guerre biologiche si ammucchiano senza molta coordinazione. Si capisce che Rugarli voleva proprio rappresentare un universo disgregato e corrotto, non tragico ma grottesco (a proposito, "grotta", è anagramma di "troga"), ma il punto è che la sua metafora ruota su se stessa, si riempie delle tensioni soggettive dell'autore ma non aggancia poi molto del reale. Di essa si può dire, al massimo, ch'è una sorta di summa delle incazzature dell'italiano medio, con un tanto perciò di ragioni, ma anche con un sostanzioso contributo d'intollerabili luoghi comuni ripetuti senz'ombra d'ironia: qui si sciopera sempre, la gente non ha voglia di fare nulla, il portinaio è spione e per di più non si lava, i calabresi sono ipocriti e ruffiani e volgari, e così via. Né la pagina di Rugarli (t-rugarli?) è sostenuta da adeguati mezzi stilistici: direi anzi che a fronte di poche pagine nelle quali il livore decolla fino a farsi epos negativo stanno innumerevoli cadute, spesso di autentica e temo non perfettamente consapevole volgarità. Il romanzo, è vero, non è riuscito, ma meriterebbe molto maggiore indulgenza se non fosse di smodate presunzioni, irresponsabilmente sostenute dalla critica. Lungi infatti dall'essere un ritratto, sia pure metaforico, dell'Italia più recente, l'umorale sarcasmo de La troga è in realtà una versione incupita e apocalittico-poliziesca di quelle avventure iperboliche, inverosimilmente catastrofiche del medio italiano impiegatizio che avevano trovato umile ma non del tutto indegna rappresentazione nei racconti di Paolo Villaggio. Il commissario Pantieri di Rugarli non è tanto parente del grande commissario lngravallo gaddiano quanto di Fracchia e di Fantozzi; e se La troga pos-
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