Nella pagina di fronte: Bllenchl In una foto di Vincenzo Cottlnelll. DI lato: Fabrizia Ramondlno In una foto di Giovanni Giovannetti. corale/intimo, è lukacsiano/lirico ... È un romanzo che ambisce alla dimensione più vasta e rappresentativa, a dire Napoli e la sua storia recente e parte significativa dei suoi ceti, secondo un procedimento bensì teatrale, e cioè di specifica tradizione napoletana, di una cultura che prima di Un giorno e mezzo si può dire non abbia mai dato un vero romanzo ad esprimerla nella sua essenza e totalità, ma solo grande teatro. La scena è.classica (una villa fatiscente e le sue diramazioni, coi suoi tanti abitanti che vanno dai nobili decaduti e i loro eredi agli "studenti di Portici" agli abitanti sottoproletari dei "bassi", ecc.) e classicamente teatrale, come la concentrazione degli accadimenti nel "giorno e mezzo" (una domenica e mezzo) del titolo: la coralità "sociologica" di Viviani, la concentrazione "festiva" di Eduardo, alla Sabato, domenica, lunedì. È scena barocca, ma di un barocco residuale che ingloba anche l'ininglobabile, non solo stucchi e cornici e quinte e macerie, ma anche piante e animali, cacche e bambini, e il bric-à-brac variato che viene da più epoche e stili. E si apre, classicamente a mezzocolle, sul golfo e sul mare, e accoglie, tra i suoi abitanti fissi, ospiti a raffica, in riunioni politiche che velocemente scivolano nel conviviale, o in a-parte di confessione e di sfogo, di incontri provvisori, di confronti anche dolorosi. Napoli, la più facilmente e naturalmente internazionale delle città italiane, ha d'altronde mantenuto la sua tradizione di scambio e non sorprendono, qui, le Karin e gli Jorgos, i Corduras e le Hutta che vi scivolano dentro per mischiarsi transitoriamente o definitivamente ai "nativi". La variante attiva e "storica" di questo giorno e mezzo è data dal "movimento": il giorno e mezzo è dell'autunno '69, quando una generazione di giovani intellettuali - di origine nobile e borghese come di origine piccolo-borghese o più raramente proletaria - scopriva e "faceva" la politica, e lo scontro era tra i (genericamente) "populisti", e i "marxisti" rigidi e dottrinari, i primi troppo dentro la gente per modificarla, forse, quanto i secondi troppo fuori, rifugiati nei cieli gelidi della teoria "perché trasformare la realtà" è a Napoli più che altrove, davvero "troppo arduo". Una diffusa e dominante affettività, che rende a volte gli affetti interscambiabili, irrita i più politici, quanto l'astrattezza irrita i più istintivo-corporei dei maschi, mentre le donne sembrano, esse, la parte solo all'apparenza passiva (la parte dominante di una città-femmina), la cui sintonia con il giro lento del tempo e della terra dà forza e vena e saggezza anche nella rottura. Ma è l'occhio sconsolato di don Giulio, il nobile decaduto che non si orienta in questo casino di nuovi costumi e di parlamentar politico, ad aprire il libro; ed è l'abbraccio del ragazzo analfabeta e ritardato e della sua cagna a chiudere, con la morale della più miserabile delle madri che pur sa e ripete il vecchio motto provvidenziale che "il cielo, dove vede neve, spande sole". Verso la fine, prima che don Giulio muoia, il suo sogno di un'ascesa al Vesuvio ci ricorda prepotentemente - lo "sterminator Vesevo" ma anche la indomita forza della ginestra - la precarietà leopardiana dell'umano: ché infine Un giorno e mezzo dice, senza forzature di sorta e con una mirabile vigoria dell'insieme e del particolare, come qui, a Napoli, ancora e sempre la natura vinca sulla cultura e sulla storia - anIL CONTISTO / che, naturalmente, quella della novità del '68. Che inatteso romanzo ha scritto Fabrizia Ramondino! tutto dentro alla storia - sua e nostra - e tutto oltre e più a fondo, senza compiacimenti decadenti e anzi, teatro per teatro, con procedimenti insiememorantiani, ma meno alti o meno gridati che in Menzogna e sortilegio, più soffusi e acquarellati, e cechoviani: la malinconia delle vite, di tutte le vite, e il peso della storia, la difficoltà del cambiamento, anche quando al singolo pare niente affatto difficile cambiare, rompere la crosta delle convenzioni, perché quella civiltà peculiare che è Napoli lo permette e concede, ma solo per meglio fagocitare nell'organico ricambio, nell'abbraccio vita-morte, nel tutto materno di un'entità chiassosa, proteica, divorante. E però non abbiamo detto "lukacsiano" per caso: perché l'ambizione dell'autrice è 19
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