Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

DISCUSSIONE/GIACCHi AUTORITRA11ODI GRUPPO, IN UN INTERNO Piergiorgio Giacchè I testimoni privilegiati Sarà certo capitato anche a qualcuno di voi di sentirsi rammentare che sono passati vent'anni dal 1968. In effetti, apescare con un po' di attenzione non in mezzo agli avvenimenti - ché quelli non interessano a nessuno - ma tra gli "eventi", si potrebbero raccogliere le segnalazioni di numerose iniziative curiosamente coincidenti. Quasi si volesse o dovesse celebrare, che so?, una sorta di "ventennale" del '68. Ma sì, chiamiamolo così... Vent'anni sono un tempo sufficientemente antico e non ancora perduto: ottimale per l'invenzione di una tradizione che riassuma e assolva i precedenti tradimenti. La scadenza utile per la possibile ascesa dei valori e la caduta in prescrizione dei reati. Sembrano un tempo liturgico: l'ora solenne in cui si possono aprire gli animi al perdono, ovvero almeno ai favori dell'ultima simonia, quella delle indulgenze. A un certo punto la Storia fa comodo, e la memoria diventa facile. È s.trano, dopo anni di sviluppi e cambiamenti e deviazioni, dopo un "decennale" in cui si è festeggiata la svendita e l'oblio, quanto facilmente e improvvisamente fluiscano i ricordi. Prima sui giornali e davanti alle telecamere, poi anche dal vivo, in convegni e conferenze giocate a metà fra le vecchie lezioni cattedratiche e i nuovi corsi di apprendimento. Infine anche in redivivo, allestendo party/revival dentro le gloriose università, stavolta veramente "occupate", fra studenti e professori di allora, cioè fra professori di allora e professori di oggi (con qualche senatore in più), con la presenza optional di Autorità e Questori, in memoria dell'Autoritarismo e della Repressione, come compariva allora nei titoli di testa: tanto per far capire che differenza passa - ritrovata la calma e l'ottica giusta - fra le guerre civili e le battaglie civili, com'erano in definitiva le scaramucce di allora. Nel nervosismo della ricostruzione dei fatti e della riconsiderazione dei fenomeni, i vari, eppure sempre i soliti, "testimoni privilegiati" non sono sempre d'accordo; sono comunque concordi nell'ambizione e nella necessità di passare (letteralmente) alla Storia. Pertanto scavare nella memoria ed esibire i propri ricordi non è affatto l'atteggiamento dominante: piuttosto sembra di assistere a un febbrile lavoro di riportare in memoria. Non c'è l'ansia, nemmeno narcisista, di recuperare o resuscitare qualche dato o fatto personale, mentre invece si partecipa al festival delle opinioni e dei giudizi - meglio se definitivi - per riportare appunto in memoria, cioè spingere all'indietro e sistemare in bell'ordine, cose che forse continuerebbero a galleggiare confuse nel presente. E, siccome il lavoro pesante dei dragamine è già stato fatto, resterebbero per lo più cose innocue, ma 12 ingombranti sul piano politico e indigeste per la linea, cioè per la cura del personale. Le resistenze di alcuni nel non voler parlare del Sessantotto, nel non voler partecipare alle sue celebrazioni, forse si spiegano così. Non si motivano con i residui del rigore anticonformista, né con le nostalgie sconvenienti di quella Politica prima ridefinita e poi smarrita, né tantomeno con i pignoli distinguo di quella che sarebbe_ stata storia personalissima di ognuno ... Invece è la sensazione inconfessabile di vivere in una cultura e società quasi per nulla segnata dalle pubblicizzate tracce ed eredità di quel momento o di quel movimento, ma tuttavia afflitta dalla permanenza insolubile di alcuni temi e problemi "di allora", ancora non metabolizzati; permanenza di ragioni e valori diventati inoffensivi ma rimasti incoerenti e incomprensibili, verso i quali si ha il sospetto che non sia giusto consegnarli al passato. Meglio sarebbe se, sia pure decomposti, si lasciassero sopravvivere nell'humus in cui si riducono le identità e le bandiere, nello spazio esiguo di una potenziale fertilità, dunque paradossalmente fuori da un certo tipo di ordinata (anche nel senso di ''comandata'') comunicazione. I "testimoni privilegiati" invece non la p<;nsanocosì. Organizzati in speciali manipoli a seconda dell'editore o dell'emittente, si danno da fare per non perdere l'ultima occasione della insistente profezia del "saranno famosi". Non importa se le intenzioni sono quelle di favorire il dibattito di una società e di una sinistra che finalmente "deve fare i conti" con l'annoso problema (e devono tornargli, s'intende!), ovvero se li motiva uno slancio più privato e più generoso, di contribuire al necessario disincanto, con quei giochi di fanciullesca ironia di cui solo loro, padrini dell'effimero, sono stati capaci. Quello che conta è rendersi disponibili al necessario e disinquinante lavoro enzimatico, a cui sono chiamati. E ce ne sono di quelli che, dall'inizio dell'anno, promossi da sessantottini a sessantottologhi, lavorano indefessi a consegnare pareri e memorie, a esaltare lo slancio di un anno inspiegabilmente fatidico, ma anche a minimizzare i drammi e i sorrisi di quella stagione da "città dei ragazzi". Ma allora, se non si vuole la rivalsa e non si ottiene il guadagno, bisogna marxisticamente chiedersi, rubando una citazione classica dai minacciosi contro-volantini del PCI di provincia, "cui prodest?". Insomma, perché? L'indulgenza ha certo i suoi sfumati vantaggi, se si tratta di tollerare di più e meglio il diverso, o lo sconfitto. Ma il fatto è che invece, come decolorante della radicalità, come diluente della dialettica, l'indulgenza diventa l'atmosfera rarefatta della dissolvenza, piuttosto che dell'assoluzione. Ebbene è ora che il Sessantotto vada in dissolvenza incrociata con la situaz"ione presente. In cambio, purgato dai suoi postumi influenzali e perfino dalle metastasi tumorali che gli sono state attribuite, diverrà "storia". Il lavoro dei testimoni privilegiati non sarà stato inutile. Lo si può, anzi, dire parte di un impegno che si può fraintendere come l'esatta prosecuzione di quello allora rivendicato: non dovevamo fare la Storia?

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