Linea d'ombra - anno VI - n. 29 - lug./ago. 1988

biano un senso, ci deve essere qualcosa di implicito, di indeterminato, che costituisca lo stesso orizzonte di senso. Ma allora come si giustifica l'alternativa: o un contesto è saturabile, oppure il senso deve essere messo fuori gioco? L'evento del senso, non è il tentativo stesso di saturare (senza mai poterlo fare fino in fondo) mediante proposizioni o "gesti" significativi quell'"implicito" stesso? D'altronde la pratica di attribuire strategicamente a teorie o ad autori posizioni troppo forti e insostenibili è tipica dell'atteggiamento decostruzionista. Gli "avversari" da decostruire diventano spesso avversari di comodo. A proposito del noto saggio di Derrida su Rousseau (in Della grammatologia), scrive Paul de Man (considerato egli stesso un maestro del decostruzionismo): "Tutte le volte che una delicata trasposizione dell'enunciato letterario al suo referente empirico ha luogo, Derrida sembra ignorare la complessità di Rousseau. Così, a proposito della valorizzazione del mutamento storico o della possibilità del progresso, Derrida scrive: '[ ..] Rousseau descrive ciò che egli non vorrebbe.dire: che il 'progresso' si compie sia verso il peggio sia verso il meglio [.. ]'. In realtà - continua de Man - sarebbe difficile eguagliare il rigore con cui Rousseau afferma nello stesso tempo e allo stesso livello di esplicitezza, il movimento simultaneo verso il progresso e verso il regresso che Derrida qui proclama" (Cecità e Visione, Liguori, p. 150). · La "mislettura" (la lettura che si propone come fraintendimento, non essendoci la lettura vera) di Derrida viene comunque apprezzata da de Man perché ha portato alla decostruzione delle "misletture" precedenti di Rousseau: ma, ci si chiede, non avrebbe sortito lo stesso effetto se invece di "misleggere" Rousseau per affermare ciò che Rousseau esplicitamente dice, si fosse volto con intenti compresivi al senso di ciò che Rousseau, per l'appunto, dice? Eh no. Perché altrimenti Rousseau non sarebbe un esponente del periodo "logocentrista", e un esponente che dissemina, malgrado sé, indizi "antilogocentrici". Che fine farebbe la compattezza della "metafisica occidentale della presenza" se tutti gli autori del passato chiedessero di essere compresi e ricompresi nelle loro istanze più originarie? (Ma "originario" è un termine che va decostruito ... ) La prima obiezione sollevata da chi si imbatte nella pratica della "mislettura", è che essa giustifica ogni falsa lettura; ma, dice Culler, "a fronte dell'affermazione che, se ci sono solo misletture, allora qualsiasi cosa va bene, si dice che le misletture sono errori; ma a fronte dell'affermazione positivista che si tratta di errori perché si battono per conquistare la vera lettura ma che falliscono nel tentativo di ottenerla, si sostiene che le letture vere sono solo misletture particolari: misletture di cui non si sono colti i difetti" (Culler, p. 162). Qui, oltre alla natura "anguillesca" della decostruzione, torna l'avversario di comodo: un imprecisato positivismo letterario che afferma che esiste una e una sola lettura possibile di un testo letterario. Veramente non mi è mai capitato di leggere o ascoltare affermazioni simili. Certo, ogni interpretazione pretende di essere la più adeguata: ma sarebbe strano che un critico, alla DISCUSSIONE/BACIGALUPO fine di un suo saggio, suggerisse di andare a leggere interpretazioni migliori della sua. O che Derrida e i suoi seguaci non si risentissero di essere fraintesi. Il che puntualmente accade. Ma, suggerisce Culler, è deplorevole che accada: "Sono comprensibili gli scrupoli di purezza dei difensori della decostruzione, come pure il loro sgomento di fronte all'accoglienza riservata a idee che essi ammirano, ma elevare gli scritti di Derrida e de Man al rango di parola originaria e considerare altri scritti decostruzionisti come imitazioni decadute, significa proprio dimenticare ciò che la decostruzione ha insegnato sul rapporto tra significato e ripetizione e sul ruolo intrinseco dei fallimenti e dei casi di infelicità. La decostruzione si crea attraverso ripetizioni, deviazioni, deformazioni". E con quest'ultima affermazione non mi resta che concludere: infatti ero intenzionato a scusarmi per aver deformato qua e là, non sempre volontariamente, ciò che dicevano i testi; e già un vago senso di colpa cominciava ad attanagliarmi, a suggerirmi di riscrivere questo articolo esaminando uno per uno i presupposti e gli effetti della decostruzione. Ma l'ultima frase citata mi ha quasi persuaso che alla decostruzione non si sfugge: deviate, deformate quanto volete! Le vie della decostruzione ... MODERNISMOE TRADUZIONE Massimo Bacigalupo "Forse una grande epoca letteraria è sempre un'epoca di grandi traduttori: o la segue". Le celebri parole di Ezra Pound, valide o no in generale, trovano conferma in quell'età sicuramente grande che è stata la prima età del Novecento. Se il "la" del modernismo viene dato dal saggio di T.S. Eliot su Tradizione e talento individuale, del 1919, l'artista dell'epoca si pone dinanzi alla contemporaneità della tradizione e dunque con una grossa volontà di recupero e di rilettura, e questo patrimonio egli porta energicamente verso il futuro (o presente vero) che è l'opera in fieri. L'Ottocento è stata la prima età storicista, che si è posta imparzialmente dinanzi al passato e ha stabilito i criteri con cui studiarlo, positivisti: visione pacifica in cui la fin de siècle portò qualche scompiglio. I modernisti del primo Novecento sono gli eredi di quei contestatori, ma vorrebbero esserlo con maggiore equanimità e ironia. Armati dei loro bravi dottorati in lettere (Pound), filosofia (Eliot), medicina (W.C. Williams), legge (Wallace Stevens), sono insieme accademici e poeti, hanno con l'ambito umanistico un rapporto professionale. Il panorama della storia è tutto conoscibile e in par.te scontato: si tratta ora, feuerbachianamente, non di conoscerlo ma di mutarlo. Bisognerà allora sapere di più dei professionisti della letteratura e allo stesso tempo deporre la maschera dell'imparzialità e della scientificità, provocando e compromettendo una situazione stagnante. Nelle sue Note sui classicisti elisabettiani, Pound scopre la cinquecentesca traduzione virgiliana di Gavin Douglas, scozzese, si compiace di preferirla all'originale, ne propugna la ristampa e conclude: "Ciò verrà probabilmente 99

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