Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

PIÙDIMEZZAVITADAVANTI Luigi Prencipe Con tutti Giovanni era cortese. Ma parlava poco di sé e mostrava un interesse moderato per le discussioni che si svolgevano attorno a lui. Interveniva quasi solo per confermare delle opinioni che gli sembravano accettabili, dicendo poche parole prive di passione. Aveva, però, scatti rabbiosi improvvisi, scatenati da singole espressioni, magari da una parola sola, in cui credeva di leggere il segno di un cinismo senza nobiltà. Tali fiammate di furore erano rare, molto rare, brevi licenze (tutto sommato gradite) da una mitezza anche troppo esibita, quasi imbarazzante nella sua monotonia. La casa di Giovanni era un luogo di ritrovo serale per amici e amici di amici (ma a volte i fili che legavano gli ospiti erano ancora più complicati, persino difficili da ricostruire con precisione) che potevano contare su un mobile bar di continuo rinnovato, su provviste di cibo che consentivano di improvvisare qualcosa di meglio delle solite spaghettate, su una eccellente collezione di dischi. Però la disponibilità di Giovanni, la sua generosità, il suo spirito di tolleranza, se erano lodati, mettevano un po' a disagio, non tanto perché apparivano spinti fino alla dissennatezza, ma perché tutto (in quella disponibilità e generosità e tolleranza) era compiuto come se Giovanni fosse distaccato di almeno un passo dalle cose che faceva e dalle persone con cui era in contatto. E poi, ad accrescere il disagio, c'era l'assoluta mancanza di confidenze e di accenni alla propria vita intima, tra persone per cui era un punto d'onore dire (o far finta di dire) ogni cosa di se stessi, in nome di principi vaghissimi e perciò dati per indiscussi: naturalezza, spontaneità ... D'altra parte un piccolo "mistero" c'era effettivamente in quella casa così aperta ad amici, conoscenti e sconosciuti. Sarebbe davvero sconsiderato parlare di "mistero della camera chiusa", espressione che è di pertinenza di un genere letterario cui questa vicenda è estranea. Sta di fatto che, negli ultimi quattro anni, nessuno aveva visto aperta la stanza che prima serviva da studio. I mobili (eccetto una poltrona) e i libri erano stati distribuiti in altre parti della casa, e Giovanni, quando qualcuno gli chiedeva perché, fingeva di essere distratto. Se ne erano occupati anche i giornali, quattro anni prima: Stefano Santini, ventun anni, universitario, figlio di un preside di scuola media e di un'insegnante, era morto all'improvviso durante una partita di pallacanestro. Ai controlli medici era sempre risultato sanissimo, e poiché un paio di casi del genere si erano già avuti di recente, i giornali si mostrarono piuttosto allarmati, interrogando clinici illustri. Giovanni e Stefano erano allora amici da due estati, da quando si erano trovati casualmente, su un treno, a dividere il poco spazio che una folla di viaggiatori esausti e incattiviti dal caldo aveva lasciato loro (e soprattutto allo zaino di Stefano) davanti alla porta della ritirata. Stavano tornando tutti e due a casa (da un festival jazz l'uno, da un campeggio in Grecia l'altro), erano concittadini e si conoscevano di vista. A Giovanni non piacevano le conversazioni in treno, ma in questo caso non se ne poteva proprio fare a meno. Stefano parlò delle sue vacanze, e Giovanni si accorse che non lo infastidiva ascoltarlo, che quel racconto, malgrado fosse così tipico (comprendeva, infatti, anche un seminubifragio e i tentativi di approccio a un gruppo di nordiche disinibite che in troppi volevano "farsi") lo divertiva e lo interessava, che avrebbe potuto ascoltare il suo compagno di viaggio per ore, non importava su quale argomento. Perché in Stefano le parole, gli occhi, i gesti delle mani, i sorrisi si accordavano in una armonia stupefacente, senz'altro affidata a un perfetto meccanismo segreto di fili luminosi. Così perfetto da resisterecon bella disinvoltura all'afa, alla stanchezza, al cat74 tivo odore che i finestrini aperti mitigavano appena. Due giorni dopo Giovanni rivide Stefano per uno scambio di dischi già programmato in treno. Poi lo rivide sempre più spesso, quasi quotidianamente. Conobbe, a trent'anni passati, l'irragionevolezza e le trepidazioni delle grandi amicizie dell'adolescenza. E si fece guidare docilmente nei riti e nelle innocue trasgressioni di un piccolo mondo di ragazzi con i quali non aveva ricordi in comune, tra le rimostranze ironiche degli amici di più vecchia data. Quando Stefano morì il giornale locale pubblicò anche una sua foto, consentendo pure a chi non lo conosceva di esclamare con la dose dovuta di rammarico: "Un così bel ragazzo. Peccato!". Di lì a poco Giovanni svuotò il suo studio e lo chiuse a chiave per tutti. Nello stesso periodo venne visto più volte, di ritorno da brevi viaggi in città diverse, entrare in casa con dei grossi rotoli sotto il braccio, dei poster presumibilmente, che poi non mostrava agli amici. Una stanza chiusa e una misteriosa collezione di poster: doveva esserci una connessione e, sotto, una torbida mania, a sfondo sessuale naturalmente. Per quattro anni, fino allo scioglimento del mistero, nessuno dubitò che quei poster fossero legati a complicate e raffinatissime perversioni solitarie. I carabinieri furono abbastanza gentili ma scrupolosissimi nel guardare dappertutto, dischi compresi. Il nome di Giovanni era stato trovato sull'agendina di un piccolo spacciatore appena arrestato, che qualcuno aveva portato poche volte a casa sua. In effetti Giovanni consumava saltuariamente un po' di roba leggera, ma grazie a Dio in quel momento non ne aveva neanche un grammo. I carabinieri speravano di trovare qualcosa nell'unica stanza chiusa a chiave. Ma qui videro soltanto, con stupore, una poltrona e una ventina di foto dal formato gigantesco, parte appese ai muri, parte attaccate con ganci al soffitto. Ritraevano la stessa persona, un ragazzo sui vent'anni: seduto su una panchina, mentre leggeva il giornale, in costume da bagno al mare, su una moto ... Era strano, ma con la droga non c'entrava. Però ne parlarono a qualcuno, e questo (la città era piccola) era lo stesso che dirlo a tutti. Anche per ore, di ritorno dalla Biblioteca Civica, di cui era vicedirettore, o la sera tardi, quando restava solo, Giovanni fissava ora l'una ora l'altra di quelle foto disposte tutt'intorno nello studio. Diciotto momenti diversi gli si offrivano col marchio indiscutibile della verità, ulteriormente convalidato dalla grandezza naturale. Ma avevano il torto di essere immobili e di celare troppe cose - perché un momento è fatto anche di suoni, odori, parole, gesti. A Giovanni non bastavano le briciole. Quei momenti voleva catturarli per intero, uno ad uno, e vivi, in movimento, liberati dalla cristallizzazione cui li costringeva la pellicola. Perciò si concentrava fino allo spasimo sulle immagini ingrandite dell'amico morto, con lo stesso fervore, misto di ebbrezza e di strazio, di un asceta che chiede all'effigie del suo dio di parlargli. Nelle prime settimane aveva avuto dei dubbi, spaventato dalla sproporzione tra i pochi risultati e la vastità di un programma che non sapeva neppure bene in cosa consistesse e che era comunque troppo simile a un delirio. L'incertezza, però, durò poco. Fu sufficiente una breve folgorazione: un movimento delle labbra fatto di poche sfumature piccolissime, che si presentò all'improvviso con assoluta evidenza, forzando trionfalmente l'immobilità e la piattezza bidimensionale della pellicola. Non era un'illusione. Lo garantivano il battito disordinato e violento del cuore e il flusso febbrile che sentì diffon-

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