Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

STORIE/REVUELTAS sociato all'impresa per la sua bella faccia. Albino se la rise: solamente perché aveva una madre. Avere una madre era una gran cosa per quel coglione, un vero affare. Le visite formavano una coda nella rotonda, a poca distanza - ma ancora fuori dall'angolo visivo di Albino -, per entrare a turno nei rispettivi incroci. Madri, moglie, figlie, ragazzi, pochissimi uomini fatti, due o tre in ogni gruppo, con l'aria sospettosa, lo sguardo basso. Le conversazioni, curiosamente, non giravano mai intorno alle cause che avevano condotto in carcere i loro parenti. Nessuno si metteva a discutere sulla colpa o sull'innocenza del figlio, del marito, del fratello: stavano lì, e questo era tutto. Non era lo stesso con altri tipi di visite. Quando qualche signora della classe alta arrivava in questi luoghi, le prime volte, la sua unica preoccupazione, ossessiva, evidente - che alla fine risultava priva di qualsiasi logica o anche di una semplice illazione - era quella di stabilire un limite sociale preciso fra il suo recluso - le cause per cui era stato arrestato, la qualità passeggera ed assolutamente incidentale del suo passaggio per la prigione - ed i reclusi del resto della gente. Il suo era "accusato di ", senza avere commesso nessun delitto - anche se le apparenze risultavano oltremodo sospette - e si erano già messe in moto in suo favore grandi influenze, e due o tre ministri si stavano occupando della faccenda. Chi la ascoltava assentiva invariabilmente, senza discutere e senza sorprendersi, con indulgenza ed incredulità, senza che la gran signora facesse caso a questo tipo di pietosa cortesia, che lei prendeva per sbalordimento, se si aggiunge un certo lusso caricato con cui andava vestita. Ma a mano a mano che la sua presenza si faceva più costante'nella coda delle visite, la signorona andava poco a poco modificando il suo atteggiamento e cominciava a fare concessioni alla realtà. Parlava sempre meno dei personaggi influenti, l'innocenza e la colpa del suo detenuto decadevano vistosamente come argomento di conversazione ed i suoi vestiti erano più semplici, fino a che finalmente entrava a far parte della categoria dei visitatori normali e finiva col passare inosservata. La Chata scorse la figura di Meche, indietro, "fra le altre donne della coda. Sospirò. La invidiava terribilmente. Le piaceva molto il suo uomo, il suo Albino, e da quando lui aveva mostrato loro la danza del ventre nella sala dei difensori, impazziva letteralmente per lui. Avrebbe chiesto a Meche di farla andare a letto con lui, ma senza perdere l'amicizia. Solamente una o due volte, senza che si stabilisse una fissazione, cioè come se Meche non ci si fissasse. Un poco discosta da Meche, la madre de El Carajo si avvicinava zoppicando, affannata. Si era lasciata infùare il tampone anticoncezionale, da Meche e da La Chata, come se niente fosse, con l'indifferenza di una vacca alla mungitura. Ecco qua le mammelle; ecco qua la vagina. Come avevano calcolato, lei non fu perquisita, avevano rispettato la sua età, quella vacca da latte era passata senza sospetti, come una vergine. Ormai erano già arrivate alla gabbia delle scimmie, nel cassone. El Carajo cercava di convincerli a fargli sporgere la testa dal vano, perché, diceva, sua madre non avrebbe certo consegnato la droga ad altri che a lui. Ma litigava senza forza, senza speranza. La testa di Albino gli rispondeva 60 da fuori alla cella, con rabbia. Finalmente, giu in fondo, apparvero Meche e La Chata. "Stronzoni di scimmie figli di troia!" Gli sguardi delle due donne si volsero verso la voce: era il loro uomo. Però mancava quella vecchia cagna della madre, la disgraziata non arrivava. La testa della ghigliottina'rifiutò seccamente di cedere il posto di vedetta. Sua madre non sarebbe stata così ingenua da dare la droga ad altri, insisteva El Carajo. Tutte balle. Desiderava vedere sua madre all'istante, qui, ne aveva un disperato bisogno. Le avrebbe raccontato tutto, senza restarsene muto come le altre volte. Tutto. Le immense notti di veglia nell'infermeria, costretto nella camicia di forza, i bagni di acqua gelata, la faccenda delle vene: certo che non voleva morire, però comunque voleva morire; il modo di abbandonarsi, di abbandonare il corpo come delle filacce, alla deriva, l'infinita empietà degli esseri umani, l'infinita empietà sua propria, le maledizioni di cui era fatta la sua anima. Tutto. Insisteva. "Ti ho detto di non rompere le palle!" In quel momento la madre di El Carajo attraversò le due cancellate del cassone ed entrò nel cortile della Croce. Erano salvi. Orientate dal grido che aveva lanciato Albino, le donne si incamminarono verso la cella di isolamento, ma con una specie di traslazione magica, invisibile ed affrettata, unite ai movimenti, all'andare e venire ed al reciproco cercarsi dell'altra gente, in maniera così naturale, appropriata e disinvolta, da non sembrare diverse né particolari, né che avessero un obbiettivo proprio e determinato, al punto che ormai erano già lì, all'improvviso, e Meche si era lanciata sulla testa di Albino e la copriva di baci da tutte le parti, sulle orecchie, sugli occhi, sul naso, in mezzo alla bocca, senza che quella testa di Oloferne riuscisse a muoversi, boccheggiando appena, proprio come un mostruoso pesce dalla testa umana, gettato sulla spiaggia da un'ondata anomala. "Figlio! Do' sta il figlio mio?" esclamava la madre de El Carajo con una voce cavernosa e come pri-

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