Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

STORIE/REVUELTAS lava con un orrore silenzioso, pieno di una stupefazione con cui pareva aver rinunciato a comprendere, all'improvviso, tutte le cose di questo mondo. Non appena il piano fosse riuscito e la situazione avesse imboccato un nuovo corso, pensava di raccontarglielo a sua madre, di dirle delle angherie che doveva sopportare, e di come ormai non gli importasse niente di niente tranne il piccolo ed effimero godimento, la tranquillità che gli offriva la droga, e di come gli fosse indispensabile ingaggiare un combattimento all'ultimo sangue, minuto per minuto, secondo per secondo, per cercare di ottenere questo riposo, che era l'unica cosa che amasse nella vita, questa evasione dai tormenti senza nome a cui era sottoposto e, letteralmente di come doveva vendere il dolore del suo corpo, la sua pelle pezzo a pezzo, in cambio di un lasso indefinito e senza contorni di quella libertà in cui naufragava, ad ogni nuovo supplizio, più felice. Introdurre - o tirar fuori - la testa da quel rettangolo di ferro, da quella ghigliottina, trasportare, trasportare il corpo con tutte le sue parti, la nuca, la fronte, il naso, le orecchie, nel mondo esterno alla cella, collocarlo lì proprio come la testa di un giustiziato, irreale proprio perché viva, richiedesse un impegno attento, minuzioso, proprio come si estrae il feto dalle viscerematerne, un tenace e deliberato autopartorirsi con forcipe che strappava ciocche di capelli e che graffiava la pelle. Aiutato da Polonio, Albino riuscì a collocare la testa girata sopra la plancia. Lì sotto c'erano le scimmie, nel cassone, con la loro antica presenza inspiegabile e vuota di scimmie prigioniere. Nel momento di appoggiare le spalle contro la porta, vicino al corpo ghigliottinato di Albino, Polonio si accese una sigaretta e aspirò a lungo e profondamente con tutti i polmoni. Il sole cadeva nel mezzo della cella di un taglio obliquo e quadrangolare, una colonna massiccia e corporea, nella cui splendente massa si muovevano e urtavano con una vaghezza sonnambula, erratiche, distratte, confuse, le particelle di polvere, e che tracciava sul pavimento, a breve distanza da Polonio, la cornice di luce con sbarre verticali della finestra. Dall'altra parte del contrafforte solare, la figura di El Carajo, piena di rancore e muta, si stagliava nell'ombra, Gli impetuosi cumuli della boccata di fumo che lasciò andare Polonio, invasero la zona di luce con il disordine trascinante delle groppe, dei musi, delle zampe, delle nubi, delle incitazioni e del tumulto di una cavalleria, scavalcandosi e avvoltolandosi nella lotta corpo a corpo dei loro stessi volumi cangianti e ritmati, per poi, poco a poco, grazie all'immobilità dell'aria, integrarsi con una cadenza lieve e sottile di una quiete orizzontale, a simiglianza di una parata vittoriosa di diverse formazioni militari dopo una battaglia. E allora il movimento trasferiva le proprie forme nell'ondulata scrittura di altri ritmi e le lentissimespirali si conservavano lungamente nella loro istantanea condizione di idoli ubriachi e di statue sorprese. La voce di Albino giunse dall'altro lato della porta di ferro, tranquilla, confidenziale, tenera. "Stanno cominciando a entrare le visite". Le visite. La droga. I corpi di fumo slabbravano i propri contorni, si allacciavano, costruivano rilievi e strutture e scie, soggetti al loro 58 stesso ordinamento - lo stesso che decide i sistemi celesti - ormai puramente divini, liberi di umanità, parte di una natura nuova ed appena inventata, di cui il sole era il demiurgo, e dove le nebulose, con appena un soffio di geometria, previo ad ogni Creazione, occupavano la libertà di uno spazio che si era formato a sua propria immagine e somiglianza, come un immenso desiderio interminabile che non arriva a realizzarsi mai e non vuole ridurre mai i propri limiti a nulla che possa contenerlo, proprio come Dio. Ma lì c'era El çarajo, un anti-Dio scontraffatto, tarato, che cominciava a scuotersi con le rozze convulsioni di una tosse canina, galoppante, che gli faceva dare colpi con il corpo in modo strano, intermittente ed autonomo, con il rumore sordo e in fuga di un bongo a cui avessero allentato la membrana, sul muro dell'angolo a cui si appoggiava. Sembrava un indemoniato con l'occhio d'avvoltoio collerico nel quale si affacciava l'asfissìa. Le linee, le spirali, le conchiglie, le statue e gli dei impazzirono, fuggirono via, dispersi e lacerati dalle trepidazioni della tosse. Aveva un polmone in meno e magari Albino aveva appoggiato il ginocchio con troppa forza contro il suo petto quando, qualche attimo prima, aveva cercato di strangolarlo. Questo zoppo era un vero guaio. Con grande sforzo Albino tirò fuori la mano dallo sportello, incollata alla faccia e sopra il naso, con l'intenzione di star pronto a ricevere la droga nel momento in cui le donne si sarebbero avvicinatealla porta della cella. Una rabbia improvvisa gli accecò la vista: quella piccola crosta umida, non ancora indurita, il pus, il pus della ferita aperta di El Carajo che lui gli aveva lasciato aderente alla mano durante il corpo a corpo e che Albino stava per strofinarsi sulle labbra. Chiuse gli occhi mentre tremava con un tintinnio della testa sulla plancia di ferro, a causa della violenza bestiale con cui stringeva i denti. Era deciso ad ucciderlo, deciso con tutte le forze della sua anima. Aprì le palpebre per guardare.

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