Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

STORIE/REVUELTAS tutto disinteressato alla sua persona, a quel corpo che sembrava non appartenergli, ma di cui si giovava, si difendeva, si nascondeva, impossessandosene accanitamente, con il più pressante ed ansioso dei fervori, quando riusciva a possederlo, a ficcarsi dentro, a sdraiarsi nel suo abisso, in fondo, inondato da una felicità vischiosa e tiepida, mettersi dentro la sua stessa cassa corporea, con 1a droga come un angelo bianco e senza faccia che lo poteva condurre per mano lungo i fiumi del sangue, proprio come se percorresse un lungo palazzo senza stanze e senza echi. Puttana sua madre! "Ti dico che non puoi, stronzo, smettila di cacare il cazzo!". Eppure, la madre lo andava a trovare, esisteva, anche se la sua esistenza pareva inconcepibile. Durante le visite nella stanza dei difensori - una stanza stretta, dalla superficie irregolare, con panche, piena di gente, reclusi e familiari, dove non era difficile riconoscere gli avvocati e i paglietta (questi anche più facilmente) dal portamento e dall'aria.di superflua furbizia con cui si riferivano ad una determinata carta, con un bisbiglio pieno di affettazione, solenne e stupido, lasciando scivolare le parole all'orecchio dei loro clienti, mentre rivolgevano rapidi sguardi di falso sospetto verso la porta (un trucco grazie al quale riuscivano a produrre, allo stesso tempo, una maggiore perplessità ed un accrescersi della fiducia nell'animo dei propri difesi)-, durante quelle visite, la madre di El Carajo, incredibilmente brutta cornei! figlio, con lo sfregio di una rasoiata che andava dal sopracciglio alla punta -del mento, se ne restava con lo sguardo basso e ostinato, senza guardare né lui né nessuna altra parte che non fosse il pavimento, con un atteggiamento pieno di rancore, di rimproveri e di rimorsi, Dio sa in che circostanza sordida ed abietta si era unita, e con chi, per generarlo, e forse il ricordo di quel fatto distante e lugubre la tornava a tormentare ogni volta. Il fatto è che ogni tanto lanciava un sospiro spesso·e rauco. "Nissuno c'ha colpa, solo io, che ti ho messo al mondo". Nella memoria di Polonio la parola nissuno si era fissata, insolita, singolare, come fosse la somma in un infinito numero di significati. Nissuno, questa parola triste. La colpa non era di_nessuno, del destino, della vita, della sorte nera, di nissuno. Per averlo messo al mondo. La rabbia di vederselo qui ora, El Carajo, rinchiuso con loro nella stessa cella, insieme a Polonio ed Albino, e il desiderio acuto, imperioso, supplicante, che la morte se lo portasse e che la finisse di trascinarsi per il mondo con quel corpo avvilito. Anche la madre se lo augurava con la stessa forza, con la stessa ansia, si vedeva. Muori, muori, muori. Suscitava una pena piena di ripugnanza e di collera. Con il fatto delle vene non gli succedeva nulla, solo qualche grido, nonostante che tutti si aspettassero, puntualmente, sinceramente, onestamente, che crepasse una volta per tutte. A posta si addossava alla porta della cella - un giorno qualunque, uno di quelli in cui doveva restarsene in isolamento -, proprio vicino allo stipite, in modo che il rivolo di sangue che sgorgava dalla vena arrivasse quanto prima nello stretto corridoio, al piano superiore della Croce, e da lì scivolasse nel cortile, dove anda54 va a formare una pozzanghera sulla superficie di cemento, e calcolando il tempo in cui sarebbe successo, El Carajo si sentiva già sicuro che si sarebbero accorti del suo suicidio e allora si metteva a lanciare i suoi ululati canini, i suoi sospiri da mantice scassato, senza 11}.0rires,olamente per fare confusione e per farsi portare dall'isolamento all'infermeria, dove trovava il modo di procurarsi la droga per ricominciare di nuovo, un'altra volta, cento, mille volte, senza mai trovare la fine, fino al prossimo isolamento. Fu in una di queste volte che Polonio lo conobbe, mentre El Carajo, in mezzo a uno dei sentieri del giardino dell'infermeria, ballava una specie di danza semi-ortopedica e recitava in un modo precipitoso e febbricitante versetti della Bibbia. Portava al collo, come una cravatta, una corda bisunta, e attraverso gli strappi del'uniforme blu si vedevano, negli sbracciamenti della danza, il petto e il torso nudi, pieni di orrende cicatrici, e sotto la pelle, di lontani e scoloriti tatuaggi. L'occhio sano e il fiore erano nauseanti, facevano rabbrividire. Era un fiore fresco, naturale e nuovo, un gladiolo mutilato, a cui mancavano i petali, attaccato agli stracci della giacca con un pezzo di fil di ferro coperto di ruggine, e lo sguardo purulento dell'occhio sano aveva un'aria maliziosa, calcolatrice, burlona, autocompassionevole e tenera, sotto la palpebra semi-chiusa, rigida e senza ciglia. Fletteva la gamba sana, quella zoppa in posizione di attenti, le mani sulla vita e la punta dei piedi in fuori, nella posizione dei guerrieri di certe danze esotiche di una vecchia rivista illustrata, per tentare poi di fare dei piccoli salti in avanti, per cui perdeva l'equilibrio e finiva per terra, da cui si alzava solo dopo grandi fatiche, scalciando furiosamente così da girare in tondo sullo stesso posto, senza che a nessuno passasse per la testa di andarlo ad aiutare. E allora l'occhio sembrava smorirgli, quieto ed artificiale come quello di un uccello. Era con quest'occhio morto che guardava sua madre durante le visite, lungamente, senza pronunciare una parola. Lei certamente voleva che morisse, forse a causa di quell'occhio in cui lei stessa era morta, però, nel frattempo, gli consegnava il denaro per la droga, i venti, i cinquanta pesos e se ne restava lì, dopo averglieli dati - e subito i biglietti trasformati in una piccola pallottola simile ad una caramella sudata e appiccicosa, nel vuoto del pugno-, sulla panca della sala dei difensori, con la pancia piena di vermi che le cadeva come un fagotto sulle gambe corte con cui non riusciva a toccare il pavimento, ermetica e soprannaturale a causa del dolore per cui non la finiva mai di partorire questo figlio che si afferrava alle sue budella guardandola con quel suo occhio criminale, senza voler uscire dal grembo materno, ficcato nel sacco della placenta, nella cella, circondato da sbarre, da scimmie, anche lui come una scimmia, girando su se stesso scalciando, senza potersi alzare da terra, come un uccello a cui mancasse un'ala, con un solo occhio, senza poter uscire dal ventre di sua madre, in isolamento lì, dentro sua madre. Poiché più o meno di questo si trattava e Polonio era l'autore del piano, cercò di convincerla e alla fine - senza molti impicci - lei si dichiarò di-

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