CARCERED'ISOLAMENTO José Revueltas A Pab/o Neruda L e scimmie se ne stavano lì imprigionate, sì proprio loro, scimmia e scimmione; o meglio, scimmione e scimmione, tutti e due, nella loro gabbia, ancora senza disperazione, non disperati del tutto, con i loro passi da un'estremità all'altra, detenuti eppure in movimento, imprigionati dalla scala zoologica come se qualcuno, gli altri, l'umanità, impietosamente avesse deciso di non occuparsi più del loro problema, del problema di essere ridotti a scimmie, di cui però neanche loro volevano rendersi conto, prigionieri da qualunque parte Io si guardasse, ingabbiati dentro quel cassone dalle alte inferriate a due piani, col loro vestito di stoffa blu e il berretto scintillante sulla testa, in quel loro andar su e giù senza ammaestramento, naturale, eppure fisso, senza riuscire a fare il passo che avrebbe potuto farli uscire da quella infraspecie in cui si muovevano, camminavano, copulavano, crudeli e senza memoria, scimmia e scimmione in Paradiso, identici, con lo stesso pelo e lo stesso sesso, ma scimmia e scimmione, imprigionati, fottuti. La testa abilmente e meticolosamente appoggiata sull'orecchio sinistro, sulla plancia orizzontale che serviva a chiudere l'angusto sportello, Polonio li guardava dall'alto con l'occhio destro inchiodato verso il naso in una decisa linea obliqua, mentre camminavano da un lato all'altro dentro il cassone, con il mazzo di chiavi che spuntava da sotto la giacca di stoffa blu e urtava contro la coscia nell'ondulare di ogni passo. Prima uno e poi l'altro, le due scimmie viste, guardate dall'alto del secondo piano da quella testa che non poteva disporre che di un solo occhio per guardarli, la testa sul vassoio di Salomè, fuori dallo sportello, la testa parlante delle fiere, staccata dal tronco - proprio come nelle fiere, la testa che predice il futuro e declama versi, la testa del Battista, solamente che in questo caso orizzontale, appoggiata sull'orecchio-, che non permetteva di vedere niente laggiù all'occhio sinistro, solamente la superficie di ferro della plancia, con cui si chiude lo sportello, mentre loro, nel cass,.:me,si incrociavano camminando da un lato all'altro e la testa parlante, insultante, con un'intonazione lunga e lenta, piagnucolosa, cinica, trascinando le vocali nel- )'ondulare di qualcosa come una melodia dagli alterni accenti contrastati, li mandava a farsi fottere ogni volta che l'uno o l'altro entrava nel campo visivo dell'occhio libero. "Queste stronze di scimmie di quella troia della madre che le ha fatte". Se ne stavano lì imprigionate. Più imprigionate di Polonio, più di Albino, più di El Carajo. Per qualche secondo il cassone rettangolare restava vuoto, come se non ci fossero scimmie lì, nell'andare e venire di ognuna di loro, i cui passi le avevano portate, in senso contrario, all'estremità della gabbia, trenta metri, più o meno, sessanta fra andata e ritorno, e quello spazio vergine, adimensionale, si trasformava nel territorio sovrano, inalienabile, dell'occhio destro, ostinato, che vigilava millimetro per millimetro tutto quello che poteva capitare in questa parte della Croce. Scimmie, scimmioni, stupidi, vili e innocenti, con l'innocenza di una baldracca di dieci anni d'età. Così stupidi da non rendersi conto che i prigionieri erano loro e nessun altro, compresi le madri, i figli, e i padri dei loro padri. Sapevano di essere fatti per vigilare, spiare e guardarsi intorno, in modo che nessuno potesse sfuggir loro di mano, né da quella città né da quelle strade con sbatre, da queste sbarre moltiplicate dappertutto, da questi angoli, e le loro facce stupide non erano altro che la forma di una certa nostalgia imprecisa intorno ad altre facoltà che erano impossibilitati ad esercitare, un certo balbettio dell'anima, le facce scimmiesche, in fondo soprattutto tristi per una perdita irreparabile ed ignorata, coperte di occhi dalla testa ai piedi, una rete di occhi per tutto il corpo, un fiume di pupille che scorre su ogni parte, sulla nuca, sul collo, sulle braccia, sul torace, sulle palle, loro dicevano e pensavano che per mangiare e perché potessero mangiare a casa loro dove la famiglia delle scimmie ballava, squittiva, i bambini, le bambine e la moglie, pelosi dentro, per le ventiquattro lunghe ore in cui dovevano tenersi la scimmia a casa, dopo le ventiquattro ore di turno in Preventiva, gettato sul letto, sporco e attaccaticcio, con le banconote di una miserabile corruzione, tutte unte, sul comodino, che non uscivano mai dal carcere, infami, prigioniere di una circolazione senza fine, banconote da scimmia, che la moglie lisciava e stirava con la palma della mano, lungamente, atrocemente, senza rendersene conto. Era tutto un non rendersi conto di niente. Della vita. Senza rendersi conto se ne stavano lì, dentro il cassone, marito e moglie, marito e marito, moglie e figli, padre e padre, figli e genitori, scimmie atterrite e universali. El Carajo implorava di poterli guardare anche lui attraverso lo sportello. Polonio pensò a quanto era odioso dover tenere lì El Carajo anche lui rinchiuso, isolato in cella. "Ma se non puoi, stronzo ... ". La stessa voce dalla cadenza lunga, indolente, eppure una voce impersonale, che tutti usavano come un timbro proprio, in cui, alla cieca e nell'oscurità, non sarebbe stato possibile distinguere gli uni dagli altri tranne che per il fatto che quello era il tipo di voce con cui esprimevano comodità, compiacimento e una certa nozione gerarchica della casta orgogliosa, incosciente e gratuita di essere dei delinquenti. Certo che non poteva. E non a causa del meticoloso lavoro di introdurre la testa nello sportello e di piazzarla, di lato, con il fastidio delle orecchie nel passare, sulla plancia, sul vassoio di Salomè, ma perché a El Carajo gli mancava proprio l'occhio destro, e con il sinistro solo non poteva vedere altro che la superficie di ferro, vicina, aspra, rugosa, e infatti proprio per questo lo chiamavano El Carajo, lo stronzo, perché non valeva un beneamato cazzo, non serviva a un cazzo, con quell'occhio guercio, la gamba zoppa e i tremiti con cui si trascinava da qui a lì, senza dignità, famoso in tutta la Preventiva per quella sua abitudine di tagliarsi le vene ogni volta che lo mettevano in isolamento, con gli avambracci ricoperti di cicatrici scaglionate una dopo l'altra proprio come nel diapason di una chitarra, come se fosse assolutamente disperato - e invece no, perché non si ammazzava mai -, del tutto abbandonato, sprofondato, sempre al limite, del 53
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