il processo di massificazione e di annientamento della personalità tipico delle società d'oggi. La razionalità politica della società industriale ha sempre assunto l'individuo come puro e semplice homo oeconomicus. I suoi bisogni sono stati appiattiti al puro livello economico (si pensi all'elaborazione di Agnes Heller o di Pieraldo Rovatti); la pianificazione statale ha ridotto a "nihil" l'individuo e ne ha sviluppato solo le parti funzionali al suo potere: tanto da far nascere una vasta tematica sulla necessità di riappropriazione del rapporto tra mente e corpo. È noto che a fronte di tale situazione a più riprese, e con vari esiti, si son prodotti movimenti sociali e vari livelli di contestazione ('68, '77, femminismo ... ). Saltate le varie forme politiche che questi movimenti si davano, anche per l'inadeguatezza del linguaggio e delle categorie marxiste rispetto alla globalità di problemi, permane comunque il bisogno insoddisfatto, a livello sociale più o meno inconsciamente diffuso, di riconquistare un proprio spazio e un proprio essere fuori dalle esigenze della produzione e del potere statale. Una tale situazione, però, sancisce anche la crisi definitiva di ogni possibilità di teoria e di lettura sociale assoluta. Anche la politica non può più essere considerata un ambito di interpretazione universale, una volta preso atto che non è più possibile pensare ad essa come tecnica di ricomposizione sociale basata sull'economico. La cultura verde, &ppena nata in Italia e con tutte le incertezze rivalutate dalla presa di coscienza della complessità, sta però raggiungendo dei livelli di maturità di analisi che proprio in questo campo superano le contrapposizioni lineari dell'ambientalismo di matrice tedesca o statunitense. L'ambientalismo scientifico italiano non segue in genere scorciatoie fondamentaliste. Cerca per esempio di coniugare nella complessità e nei limiti i problemi della conservazione delle risorse con quelli della disoccupazione giovanile, evitando di divinizzare la natura e non permettendo nello stesso tempo che le esigenze dell'ambiente siano subalterne alle scelte produttive o per l'occupazione tout court. Detto in altri termini: i tempi storicoeconomico-tecnologici non sono quelli biologici; il politico ha assunto i primi come assoluti, ma oggi deve fare i conti con la crisi di tale assolutismo. Questi elementi che abbiamo brevemente richiamato - crisi degli equilibri biofisici del pianeta, modificazione del concetto di individuo, modificazioni epistemologiche - rappresentano delle novità di grande portata. Noi crediamo che sia indispensabile partire dalla presa d'atto di queste fondamentali novità nel panorama sociale contemporaneo. Novità, d'altra parte, non solo di ordine sociale e culturale, ma anche biologico, dato che la crisi ambientale attuale ha introdotto modificazioni biofisiche negli equilibri planetari per la prima volta in milioni di anni. La "questione ecologica" è una contraddizione figlia di questa epoca storica: non avrebbe potuto verificarsi, così come la conosciamo, in nessun altro periodo. La cultura di chi con tale crisi sta tentando di confrontarsi scaturisce quindi dal difficile rapporto con le suddette novità. In questo risiede la problematicità della costruzione di una dimensione culturale ecologica, ma risiede anche l'impossibilità di passare per scorciatoie o per percorsi già sperimentati. Lo stesso concetto di ecologia non può che essere reinserito nel reimparare a vivere . Per quanto riguarda l'Antologia Verde il nostro problema non è stato quello di trovare radici culturali al Movimento Verde. Piuttosto il nostro tentativo è stato quello di riferirci a tutta quella letteratura che non risente della separazione tra mente e natura operata dal filone dominante della cultura occidentale. Sentimento dell'unità tra mente e natura che abbiamo trovato per esempio in Lucrezio e San Francesco, in Pascoli e in Calvino, non in Leopardi, che peraltro resta comunque un grande Poeta che a noi piace moltissimo. È su questo che si basa la proposta di ridefinizione culturale sulla quale noi, insieme a molta parte del movimento ecologista, stiamo lavorando, una proposta che si propone di smuovere alcuni modelli culturali radicati, di acquisire una nuova "cassetta degli attrezzi", di confrontarla con gli ambiti scientifici, filosofici, politici ed economici per tentare di capire cosa significa concretamente non separare più mente e natura. Se tale impostazione è stata scambiata per mancanza di centro, limite questo che viene indicato come proprio di tutta la pubblicistica verde, bisogna capire che questo non è un limite ma una peculiarità della cultura ecologista. Se una lezione sulla presa di coscienza dei limiti e delle incertezze e del- ! 'infinita pluralità dei centri abbiamo tratto da quello che l'ecologia, la sistemica, la filosofia della complessità hanno rappresentato in questi ultimissimi anni, è che non si può parlare di un centro assoluto e predeterminato. È piuttosto dal confronto, dall'interrelazione, dalla coevoluzione di ambiti diversi che si può arrivare ad intuire più che IL CONTISTO un centro, una nuova dimensione culturale. Ed è soprattutto per questo tentativo di transdisciplinarietà, di coraggio e di umiltà nella revisione di certi modelli e di capacità di scegliere apporti e linguaggi, che attualmente l'elaborazione ecologica italiana è considerata nel dibattito internazionale come la più ricca e la più complessa. ALCUNEIPOTESI SULL'ANTI.ZINGARISMO Giorgio Viaggio Vorrei riprendere il discorso sugli zingari affrontato in questa rivista da M.Lombardo Radice nell'articolo Siamo allegrizingarelli apparso sul numero di febbraio; non è mia intenzione dare risposte bensì portare nuovi elementi a un dibattito che mi sembra importante non lasciar cadere. Il primo problema si presenta quando Radice, nel suo articolo, cercando la specificità dell'antizingarismo, si pone la seguente domanda: perché oggi si è contro gli zingari e non contro i neri? Anzitutto non sarei così convinto che oggi non ci sia più intolleranza verso i neri, o che questa possa apparire ad un livello trascurabile; proprio a partire da quelle classi sociali investite dall'antizingarismo (ma non solo quelle) l'intolleranza "estesa" è un fenomeno non ancora spentosi, del resto lo stesso Radice chiama marginale l'episodio degli studenti neri assieme ai dimostranti nei blocchi stradali. Inoltre non mi meraviglia affatto che le comunità ribellatesi agli zingari non siano quelle solide e tradizionalmente chiuse a ogni intruso, ma siano costituite da un tessuto sociale fragile e male amalgamato: le motivazioni della protesta hanno rivelato anche una esasperazione legata a una identità di gruppo incerta. Fatto significativo, poi, è che la protesta non si è allargata alle borgate "storiche" pur toccate dal problema zingari. Infine interpretazioni di tipo economico o infrastrutturale non sono da scartare del tutto in quanto non si può parlare di razzismo senza tenere conto di questi riferimenti. Il razzismo si nutre anche di tensioni sociali e può benissimo tradursi in una guerra condotta da poveri (ma direi meglio, emarginati politicamente) contro altri emarginati. La specificità di un atteggiamento di intolleranza va ricercata a partire dallo studio del rapporto (mutevole) di incontro/scontro fra realtà e culture diverse: nel caso degli zingari possiamo parlare del rapporto fra "ospitanti" e "ospitati". L'immagine at33
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