TEATRO FANTASMISENZAVENDEffA Stefano De Matteis Qui non ci torno più di Tadeusz Kantor è uno spettacolo testamento, ma anche un saggio e una riflessione sulla pratica artistica di chi, come Kantor, ha attraversato le avanguardie e oggi, dopo esserne stato un erede inventivo e poco ortodosso, rispettandone i nuclei tematici di fondo ma rivoluzionandone continuamente la prassi, ripensa al suo teatro e alle difficoltà del non cadere nel museo del quotidiano continuando con la stessa e maggiore rabbia di un tempo, ad opporsi a tutte le forme di mercificazione. Il suo è uno spettacolo che si ribella anche a questo: non sa come uscirne del tutto, ma sa condannare, da artista, e mostrare la sua insofferenza per un mondo che lo disgusta. Si tratta però anche di una summa teatrale, di un'antologia, cui si assiste quando il ciclo del "teatro della morte" è chiuso ed è possibile tirare le fila. Kantor parla attraverso i suoi spettacoli, tratti di un percorso che raggrumano esperienze e ribellioni e che dialogano col sociale, a partire da quello polacco per finire a Parigi e poi in Italia; ma questi spettacoli, a loro volta, ci parlano di lui in un sintetico miscuglio autobiografico che, filtrato, diventa storia collettiva. Tutti i materiali di Qui non ci torno più lasciano emergere una serrata tesi di "fine secolo" in cui ricompaiono i famosi "imballaggi" e l'eco degli spettacoli da quelli dell'inizio, come quel Ritorno di Ulisse da Wyspianski che affrontava la combinazione dovere-libertà, alla 'trilogia della morte'. Ancora una volta Kantor realizza un teatro della memoria, apre il suo castello popolato di figure, manichini, macchine, brandelli di umanità reietta ed esclusa. Il teatro si realizza nell'essenza e a realizzarlo sono campioni di vita ridotti alle stremo, larve e sopravvivenze. Il teatro e la memoria si scontrano e si confrontano e si aprono a noi come le cinque porte sullo sfondo nero che danno sulla bettola-obitorio: qui un oste beckettiano, una caravaggesca sguattera e un oratore da fiera che pare uscito da Bulgakov e continua imperterrito a blaterare fiumi di parole insensate, muovono i primi passi. Arrivano gli ospiti, i fantasmi prediletti, sopravvissuti alla storia, residui di un mondo ormai inesistente: la rievocazione fa rivivere questi cadaveri che arrivano portando ciascuno i propri oggetti, come in una sfilata del Cricot, una mostra del teatro di Kantor. La carovana dei fantasmi, attori di un impossibile teatro girovago, dispone in scena in una sosta forzata: la donna in gabbia, i banchi e la macchina del tempo di La classe morta, la macchina fotografica-mitragliatrice di Wielopole. E tutto è accantonato come in un magazzino della storia. Ora Kantor, anziché essere al suo solito animatore, arriva mesto e guardingo portandosi dietro il suo ultimo "imballaggio", una bara, e dice un monologo-testamento, un addio che ha la forza, la desolazione e l'abbandono del Congedo del viaggiatore cerimonioso di Caproni. Ma meno appagato, perché Kantor è un viaggiatorepoco cerimonioso e tanto irascibilequanto ironico. Come i suoi spettacoli. L'obitorio diventa una passerella che mostra quest'umanità di dannati, di deportati, di preti, di rabbini, di eterni viand!).11ti senza diinora: in vari flash appaiono i due chassidim, i véscovi ballerini, e altre figure che definiscono un'umanità frastagliata ma tutta schiacciata dai violinisti, soldati in uniforme che attraversano la scena con passo marziale stabilendo un ritmo per tutti e costringendo, con la paura alla fuga. Nellepause la sguattera pulisce, sistema oggetti, manichini e·gabbie, trova vecchi stracci. .. ed ecco l'uniforme di quell'Ulisse del '44, assieme ai fantasmi di allora e al manichino/fantasma del padre: Ulisse torna per liberare, e si mescola invece ai becchini; la sguattera si trasforma in serva di scena che realizza assonanze tra vari spettacoli. Ulisse arrivato per la carneficina e la vendetta, si rivela fasullo, un manichino anche lui che non ha la forza né la possibilitàdi compiere nessuna vendetta. In questa impossibilità Kantor si dichiara Ulisse, inquadrato tra il fantasma del padre e la bara-imballaggio della speranza. L'arrivo della barca di Caronte, una vasca IL CONTUTO Una scena di Qui non cl torno più (foto Kuhnel) da bagno mobile, trascina tutti via prima del grande ritorno e della grande festa dell'ultimo spettacolo. I soldati violinisti che prima davano il passo, si sono trasformati in seri signori in frac che bloccano l'ultima recita per realizzare, su La dannazione di Faust di Berlioz, l'ultimo grande "imballaggio": tutta la compagnia, tutti i fantasmi della storia vengono ricoperti di velluti neri tenuti da legacci. Queta volta sono i progetti artistici e le sue espressioni ad essere imballati. La memoria, l'arte, la poesia dei maltrattati dalla vita è tramutata in eternità, ma senza ragioni e storia, senza significato e movente. Kantor torna Ulisse quasi a voler formulare che le problematiche di allora non sono tramontate, ma bisogna trovare il modo di rifiutare il museo del quotidiano e le regole dell'annullamento. Non basta non lasciarsi sedurre, bisogna· forse tornare a quei principi, riformularli rifiutando il resto. Intanto Kantor-Ulisseescesolitario, trascinandosi dietro il suo ultimo imballaggio, la bara della speranza e dell'attesa. Kantor ha costruito uno spettacolo ango- .scioso, ma che muove ironicamente a tempo di tango e tiene conto di un sociale degradato, sorta di obitorio agito da personaggi larve e da inutili fanfaroni, la storia solo un fantasma "imballato", nascosta, rimossa, allontanata. Una storia che produce e continua a produrre essenzialmente vittime e cadaveri. C'è un'interessante sintonia tra questo spettacolo, il cimitero barocco di Carmelo Bene in Hommelet for Hamlet e i morti viventi di Leo De Berardinis in Novecento e mille: tre modi diversi di fare i conti con se stessi e con la storia e di parlare di oggi, senza illusioni, "imballata" la speranza. 27
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