Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

DISCUSSIONE/MANCONI &AICOACHl1 Luigi Manconi Il pontificato di Giovanni Paolo II produce il singolare effetto di rivelare, innanzitutto, le debolezze dei suoi avversari. La cosa non stupisce: il magistero di un papa nell'epoca della secolarizzazione e della massima diffusione e integrazione del sistema informativo sembra filtrare - in primo luogo - attraverso la percezione che ne ha il "mondo": e dunque, la società civile e politica per il tramite delle sue forze organizzate e dei suoi strumenti di informazione; e per il tramite di culture e di sistemi di mentalità e di valori che sono, per definizione, plurali e pluralisti. In altre parole, si può dire che il magistero di un papa, in un'epoca e in una società come le nostre, sembra "passare" principalmente attraverso il giudizio che ne danno la cultura laica e i suoi mass media. Da ciò derivano due effetti, così sintetizzabili: a) la riduzione a valutazione politica e politicistica del senso e del messaggio di una predicazione papale che, palesemente, non ha un fondamento e un'ispirazione esclusivamente "mondani"; b) la sottovalutazione del significato complessivo che il discorso di Giovanni Paolo II assume nell'impatto con le grandi masse dei suoi interlocutori del Terzo e del Quarto Mondo. Si tratta, in altri termini, del prevalere di una lettura condizionata in profondità da un limite laicistico (incapace di considerare il fatto religioso se non come mera alienazione) e da un vizio eurocentrico (incapace di "pensare" il Sud e l'Est del mondo se non come esotismo culturale). Sia chiaro: non si vuole, con ciò, diplomatizzare il giudizio sulle conseguenze che il messaggio di Giovanni Paolo II produce in termini squisitamente politici e sul ruolo che esso gioca nella formazione della mentalità collettiva in un paese come l'Italia - conseguenze e ruolo che risultano, nella gran parte dei casi, apertamente reazionari. Si vorrebbe, piuttosto, che la critica a un papato comunque estremamente significativo non . si riducesse al calcolo dei rispettivi tornaconti nel quadro della lotta politica nazionale. E allora, lasciando ad altri (Gentiloni, Zizola, Tassani...), che conducono con regolarità l'analisi dell'opera di questo papa, il compito di una valutazione complessiva, mi limito ad alcune considerazioni sull'accoglienza che la più recente enciclica, Sollicitudo rei socialis, ha avuto in Italia. Singolarmente, le critiche più forti sono giunte, diciamo così, "da destra" - invertendo una tendenza ormai consolidata. Ciò che più sembra aver irritato i commentatori dei grandi giornali della borghesia laica italiana è la "equidistanza" che il papa avrebbe assunto nel criticare contemporaneamente i due sistemi: quello capitalistico e quello collettivistico. Nel fare ciò, la Sollicitudo rei socialis avrebbe ignorato (secondo "La Repubblica", "Il Corriere della Sera", "La Stam18 Serra Pelada, Brasile (foto di Juca Martlns). pa" e quant'altri) "la questione della democrazia": che è quanto, appunto, assegnerebbe al regime capitalistico uno statusdi superiorità etica e ideale rispetto ai regimi socialisti.Col che, per un verso, si finisce col lamentare l'assenza diquelgiudiziopolitico che, di regola, viene criticato perché ritenutoindebito e inopportuno (penso ai pronunciamenti pontificin occasione di scadenze elettorali nazionali o di voti parlamentariin materia di "morale"); per altro verso, si riproponela valutazione politico-metrica come unica e, comunque superiore a tutte le altre. Dunque, un pontefice critico del "supersviluppo" e del "puro consumo" ri~chia di_de-legittimar~ il _regi~e di_li~ero mercatoe il suo pnmato rispetto a tutti gh altn reg1m1. Il checorrispondeperfettamente a quella vague ideologica e culturale- autentico mito fondante del ceto intellettuale contemporaneo - che non solo vede nella società attuale il migliore_deimondi possibili, ma vuol fare di tale affermazione alla lettera, la pietra di paragone: la pietra di paragone deÌlalealtà individuale e collettiva ai valori e agli stili di vita condivisi. Affermare, dunque, che "l'alienazione", la "sottomissioneal consumo" e la "schiavitu del possesso" costituiscono "mali in sé" e, per il credente, "peccati" appare come una forma di defezione nei confronti di una battaglia ideologicachenon consente incertezze: una battaglia ideologica che è taleesattamente perché condotta, in primo luogo, non sul piano della difesa del proprio sistema politicoistituzionaleb, ensì sy quello delle concezioni del mondo. Pertanto, ilMradicalismo" deJle af(~rma,zioni di Wojtyla appare ,agli apologeti-del mercato •"inge·nuo~' o "astorico", "premoderno" o "impolitico" : e, dunque, non adeguato - vieneda dire - al livello dello scontro, che contrapporrebbe,secondoquegli apologeti, libertà (e perciò abbondanza) e dispotismo(e perciò penuria) nel sistema dei consumi. È una polemica vecchia: ha il suono di tutte le critiche mossenel corso dei decenni, dai laici di destra e di sinistra, al pensierocristiano radicale: esso non terrebbe conto dello sviluppo(ovvero,proprio di quel "supersviluppo" di cui parla la Sol/icitudorei socialis) e dunque delle potenzialità enormi cheoffrirebbea chi, al presente, ne è escluso. (Pari pari queste erano - e si sono puntualmente rinnovate a distanza di vent'anni - le critiche mosse a Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani). Ma, paradossalmente, gli apologeti del mercato vedono giusto:proprio nella atemporalità e nella apoliticità di quelle critic~;isiede la loro forza; nel fatto di prescindere dalla concretae storica relazione di causa-effetto sta la ragione prima dellaloro intensità ed efficacia: è questo che dà loro il sensodi unmessaggio di autorevolezza particolare, superiore in qualchemodo ineludibile. Tanto più davanti alle stermlnateplateedi miseri e di infelici del Terzo e Quarto Mondo. È del tutto evidente che ai fini di una consapevolezza politico-culturaleè necessario andare oltre; ma andare oltre spetta ai titolari di competenze e mete politico-culturali: e, dunque, a sociologi ed economisti, politologi e demografi; e

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