Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

DIKUSIIONI/LIYI 11baricentro dell'ebraismo è nella Diaspora, torna ad essere nella Diaspora. Siamo abituati a un Israele paese dei miracoli, all'Israele del '48, del sionismo che coincide con una certa idea di socialismo. Adesso assistiamo a una degradazione che è un normalizzarsi. Israele sta diventando, purtroppo, un paese normale. In più, essendo un paese medio-orientale, tende a diventare piuttosto simile alle altre nazioni di quella regione. Per esempio si può temere un contagio fra il khomeinismo islamico e il diffondersi dell'integralismo religioso in Istaele, anche se in prospettiva non vedo le masse israeliane prosternarsi davanti a un nuovo ayatollah, sia esso Kahane o lo stesso Sharon. Non crede che essendo nati in maggioranza nel loro Stato, gli ebrei d'Israele sono ormai cambiati rispetto a quelli della Diaspora, abituati da sempre a sentirsi "minoranza" nel paese in cui vivono, plasmati dalla propria "diversità"? Gli ebrei europei di cui lei parla nei suoi libri sono drammaticamente attaccati al fragile valore della tolleranza. Non è che invece, normalizzandosi, gli israelianistiano anche mutando identità? Questo è un futuro prevedibile. Credo che sta a noi, ebrei della Diaspora, combattere. Ricordare ai nostri amici israeliani che essere ebrei vuol dire un'altra cosa. Custodire gelosamente il filone ebraico della tolleranza. Certo, mi rendo conto di toccare così un punto cruciale, e cioè l'interrogativo: dov'è oggi il baricentro dell'ebraismo? Almeno dal 1948 in poi leprincipali istituzioni sioniste non hanno dubbi: il baricentro è in Israele. No, ci ho meditato a lungo: il baricentro è nella Diaspora, torna ad essere nella Diaspora. lo, ebreo diasporico, molto più italiano che ebreo, preferirei che il baricentro dell'ebraismo rimanesse fuori d'Israele. Questo potrebbe suonare come l'annuncio di un suo distacco dalla nazione israeliana così com'è cambiata. Niente affatto, è lo sviluppo di un rapporto profondo e passionale. Solo credo che la corrente principale dell'ebraismo sia meglio preservata altrove che in Israele. La cultura ebraica stessa, speciequella askenazita, è più viva altrove, negli Stati Uniti per esempio, dov'è addirittura determinante. Da quel che dice, sembra che restare in Diaspora, cioè restare comunità minoritaria, sia quasi una condizione obbligatoria per perpetuare l'identità ebraica. Estremizzando, l'ebreo è ebreo in quanto è in Diaspora? Direi proprio di sì. Direi che il meglio della cultura ebraica è legato al fatto di essere dispersa, policentrica. Attribuendo agli ebrei della Diaspora il compito di educare gli israelianiai valori de/l'ebraismo, lei si tireràaddosso molte reazioni stizzite. Non era il contrario? Non era Israele a infondere forza e·sicurezza in tutti gli ebrei del mondo? Purtroppo si deve parlare di un rovesciamento. Alla fonte da cui traevano forza gli ebrei della Diaspora, oggi traggono motivi di riflessione e di travaglio. Per questo parlo di eclissi, spero momentanea, del ruolo d'Israele come centro unificatore dell'ebraismo. Noi dobbiamo appoggiare Israele, come ci chiedono anche le sue sedi diplomatiche, ma dobbiamo altresì fargli sentire il peso numerico, culturale, tradizionale, perfino economico della Diaspora. Abbiamo il potere e anche il dovere di influire in qualche misura sulla politica israeliana. In che direzione? In primo luogo credo che vada sollecitato il ritiro dal Libano. Altrettanto urgente è bloccare i nuovi insediamenti ebraici nei territori occupati. Dopo di che, come già dicevo, va cautamente ma decisamente perseguito il ritiro dalla Cisgiordania e da Gaza. E i rapporti con l'Olp? L'Olp è a sua volta un Proteo, non si capisce bene che faccia abbia, oggi. A parole porge una mano ... Ma no, non penso che siano maturati i tempi per un contatto con l'Olp. Arafat è in declino, non sappiamo cosa fa, cosa pensa, dov'è, neppure se è ancora davvero il presidente dell'Olp. Forse verrà il momento in cui un governo israeliano potrà trattare con l'Olp, ma non oggi. Entrambi i contraenti sono in fase fluida. Se, come lei auspica, il centro dell'ebraismo deve tornare a vivere nella Diaspora, bisognerà che si verifichi un qualche risveglio delle comunità israelitiche, che gli ebrei vadano alla ricercadelleproprie radici e dellapropria "diversità" nelpaese in cui vivono? Sì. Anche se ancora non accade, questo dovrebbe e potrebbe accadere in un paese come l'Italia, dove la comunità ebraica è numericamente esigua, ma piuttosto compatta. Questo è anche il nostro limite: siamo pochi e integrati. Due- anni fa, dopo l'invasione del Libano, lei diede vità insieme ad altri ebrei italiani a una protesta pubblica contro il governo israeliano. È l'indignazione, dunque, la molla che può unire gli ebrei della Diaspora? Parliamo, più pacatamente, di disapprovazione. Sì, quella è una molla, anche se io ho sempre idealmente davanti a me l'israeliano che mi rimprovera "fai presto tu, ebreo italiano in poltrona, a decidere per noi!". Eppure insisto. La storia della Diaspora è stata, sì, una storia di persecuzioni, ma è stata anche una storia di scambi e di rapporti interetnici, quindi una scuola di tolleranza. Specie in Italia. Se fossi meno stanco, se avessi più forze, agirei nella comunità israelitica italiana affinché assumesse questo ruolo. Perché mi sta bene l'integrazione degli ebrei in Italia, ma non la loro assimilazione, la loro scomparsa, il dissolvimento della loro cultura. Proprio qui a Torino c'è l'esempio positivo di una comunità israelitica integrata nella vita e nella cultura della città, ma non assimilata. È difficile, per uno che la pensa come lei, il rapporto con le istituzioni ebraiche e israeliane? Parlerei di un rapporto affettuoso e polemico. Certo profondo. Perché io sono convinto che Israele va difeso, credo nella dolorosa necessità di un esercito efficiente. Ma sono convinto che anche al governo israeliano faccia bene confrontarsi con un nostro appoggio sempre condizionato. 17

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==