Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

plice e banale è il vero cuore del conflitto. Tutto il resto si può negoziare. Si propongono allora due alternative: o il governo nel paese viene diviso e si forma uno stato binazionale, o il paese viene diviso, ebrei e palestinesi si organizzano separatamente. La prima alternativa, perseguita dagli israeliani di sinistra fino all'inizio degli anni Cinquanta, è storicamente superata, tra l'altro anche perché l'OLP ha usato la sua richiesta di uno "stato democratico, secolare, in tutta la Palestina" come eufemismo per la liquidazione di Israele. Resta allora la seconda possibilità: la divisione del paese. Ma questa soluzione presuppone la convinzione, sia da parte israeliana che palestinese, che essa sia utile agli interessi di entrambi, che un compromesso non implichi perdere la faccia per nessuno e che la continuazione della lotta non farebbe che danneggiare tutti. Tradurre l'analisi astratta in politica concreta non presuppone, unicamente e semplicemente, dì soppesare il pro e il contro. Il carro è talmente sprofondato nel fango che è impossibile tirarlo fuori subito. L'unica chance realistica sarebbe un procedere a piccoli passi, un avanzare per gradi che tenga conto delle paure di tutt'e due le parti. Un simile processo potrebbe durare anni, forse addirittura decenni; chi crede che Israele possa ritirarsi dai territori occupati nel giro di poche settimane si illude. All'avvio dello sblocco palestinese-israeliano devono essere stabiliti gli scopi delle due parti: fine della politica di occupazione e autodeterminazione dei palestinesi. L'autodeterminazione potrebbe cominciare con la costituzione di un governo autonomo che - per quanto inadeguato possa essere agli inizi - rovescerebbe la dinamica del conflitto. I palestinesi avrebbero la possibilità di fondare istituzioni proprie, gli israeliani la chance di rinunciare all'occupazione, a condizione che ci si accordi su una divisione del paese e le due parti riconoscano la spartizione territoriale. Ora però i palestinesi rifiutano tutto ciò che sa di "autonomia". Vogliono uno "stato ora", né di più né di meno. Credono che accettare l'autonomia, come era prevista per esempio nel trattato di Camp David, annulli la loro richiesta · di sovranità, non vogliono accontentarsi di meno di ciò che credono loro diritto. Il rifiuto dell'autonomia si spinge al punto che essi preferiscono continuare l'occupazione piuttosto che ! accettare una simile soluzione parziale. E praticamente imposi sibile far capire ai palestinesi che il trattato di Camp David, i con cui si riconoscevano loro i "diritti nazionali legittimi" dava ai palestinesi più speranze di quante la dichiarazione Balfour promettesse agli ebrei settanta anni fa. Allora si parlava solo della fondazione di una "patria nazionale". Purtroppo ai palestinesi manca qualsiasi senso del pragmatismo che ha determinato la politica dei sionisti: loro hanno preso ciò che hanno potuto e solo dopo hanno riflettuto su come espandere le loro proprietà. Nessuno, da parte ebraica, era soddisfatto del progetto di divisione della Palestina nel 1947. Ma tutti sapevano che era meglio di niente. Allora fu accettato e la zona prevista per lo stato ebraico nella guerra d'indipendenza fortemente ridotta. Nel frattempo anche agli israeliani è venuto meno il senso DISCUSSIONE/LEVI DELLA TORRI pragmatico. Gli ex-pionieri hanno sviluppato un attaccamento ostinato ai propri principi. "Gli ebrei sono venuti per cambiare il paese, ma poi è stato il paese a cambiarli", dice un palestinese. Non ha ancora abbandonato la speranza che israeliani e palestinesi possano diventare un giorno buoni vicini. Però l'iniziativa dovrebbe partire da Israele. "Il più intelligente non deve necessariamente cedere, il più forte può però permettersi di fare il primo passo". (traduzione di Maria Maderna) da "Die Tageszeitung", 19-3-1988. UNASVO&TA INDISPENSABl&E Stefano Levi Della Torre 1. Sono tra i molti che ritengono si debba levare la voce contro la repressione e soprattutto contro l'occupazione coloniale in Cisgiordania e Gaza, e in solidarietà con i palestinesi. Essi hanno tutte le ragioni per scrollarsi di dosso un'occupazione militare straniera e un'annessione strisciante dei territori che abitano, e hanno tutte le ragioni di pretendere l'autodeterminazione in quanto nuova nazione. La sollevazione nei territori dà concretezza e imminenza alla tesi di quanti già da tempo sostengono in Israele che l'occupazione dei territori non è condannabile soltanto perché, in essa, Israele sta dominando una nazione straniera, ma anche perché costituisce una minaccia mortale per i fondamenti stessi dello Stato di Israele. Ho parlato di "suicidio possibile di Israele" perché Israele è arrivato, oggi, a un bivio decisivo è già annunciato. L'ha ripetuto anche Abba Eban (intervista a "La Stampa", 12/1/1988): "Com'è possibile rimanere una democrazia quando il 36% dei tuoi cittadini non ha un posto nel sistema nazionale, non possono essere eletti né votare, non sono tutelati dalle stesse garanzie? Se ci annettiamo i territori, la progressione demografica ci lascia questa alternativa: diventare un regime come il Sud Africa, dove una minoranza governa con il monopolio della forza; oppure diventare uno Stato arabo: perché non siamo noi che ci stiamo annettendo i territori; sono loro che si stanno annettendo noi". C'è anche una terza ipotesi, rivoltante e altrettanto catastrofica: cacciare dai loro territori almeno un milione di palestinesi. Mi sembra che Israele sia pieno di persone sensate che vedono chiaramente la gravità estrema di questi scenari. Sono loro che ce li indicano. Ma al tempo stesso mi sembra ci siano molte persone insensate, a cominciare da Shamir, che faranno di tutto per proseguire in linea retta fin dentro il baratro. · Israele è sì un Paese minacciato, se non immediatamente, nel medio e lungo periodo. Ma neppure il criterio della sicurezza mi sembra valido per sostenere l'occupazione dei 11

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