Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

DISCUSSIONI/BRODIR to di vista del diritto internazionale, la RFT si trova ancora in stato di guerra con i suoi vicini, una situazione assurda, ma finché nessuno la prende alla lettera si continua a convivere con essa. Gli israeliani e_ipalestinesi non sono le uniche collettività ad affrontare il fatto non facile di riconoscere delle realtà, di accettare dei fatti compiuti. Se un politico tedesco dichiara che le prospettive per una riconciliazione sono pessime, viene subito tacciato di disfattismo, benché tutti sappiano che ha ragione. Si cerca di non ripetere le opzioni considerate ormai meno originali. Se non fosse così, il conflitto in Palestina sarebbe finito da un pezzo. I palestinesi avrebbero riconosciuto il diritto degli ebrei di organizzarsi come nazione in Palestina, gli ebrei quello di autogestione dei palestinesi. Ci sarebbero uno stato ebraico e uno palestinese tra il Giordano e il Mediterraneo, i cui rapporti sarebbero non necessariamente cordiali, ma normali. Si farebbe contrabbando oltre-frontiera di apparecchi video, orologi Swatch e film porno, gli ebrei andrebbero a Gerico e sul Mar Morto, e i palestinesi sulla spiaggia di Tel Aviv. Entrambi i popoli potrebbero approfittare di una situazione alla cui realizzazione non sono evidentemente molto interessati. Back to square one: perché allora buon senso e buona volontà non si impongono? Il conflitto tra israeliani e palestinesi è condotto con terminologia europea, eppure secondo regole del gioco che hanno la loro origine nel paese. Si parla di democrazia, indipendenza e a volte addirittura di socialismo, in realtà si tratta di principi, di dignità e di prestigio. Cedere significa perdere la faccia, un compromesso equivale quasi a una sconfitta. Chi si considera nel giusto - e cioè ognuna delle parti - si spezza piuttosto che piegarsi anche solo di un minimo. La dignità nazionale non concede mezze misure. Poiché gli israeliani sono convinti che il paese appartiene a loro, e poiché i palestinesi la pensano al contrario, ma allo stesso modo, nessuna delle due parti farà una concessione all'altra. Secondo la logica locale, cedere di un dito comporterebbe la perdita dell'intera mano. Finché continua il conflitto in Palestina, la situazione non può essere decisa in modo definitivo; ogni parte può credere di riuscire a far girare le cose a proprio favore, non importa se a costo di danni e perdite nel corso della guerra. Una regolamentazione che voglia definire anche formalmente la situazione di fatto, dovrebbe far perdere ai due contendenti proprio questa speranza. Ed è stato sempre più semplice iniziare una guerra che finirla. I palestinesi dovrebbero, dopo aver dichiarato, per quarant'anni, illegittima la presenza sionista in Palestina, accettare di punto in bianco l'esistenza dello stato ebraico? Per che cosa avrebbero allora combattuto e sofferto per due, tre generazioni? Per che cosa sono morti tutti gli eroi e i martiri? Da parte israeliana la situazione è simile. Un compromesso con i palestinesi significherebbe ammettere di avere fatto tanti sbagli, perlomeno negli ultimi venti anni, dalla guerra 10 dei sei giorni, e di avere perso qualcosa. Chi oggi cederebbe i territori occupati dovrebbe chiedersi perché non l'ha fatto prima. Per tutt'e due le parti è valido il motto: perché i sacrifici compiuti non siano stati inutili, il conflitto deve continuare, l'assurdità del domani giustifica la follia di ieri. Così la lotta conserva la propria dinamica che, come un perpetuum mobile, si alimenta da sola. È come viaggiare a marcia in folle a pieno regime, contribuendo al costituirsi dell'identità nazionale sia israeliana che palestinese. . In questo senso israeliani e palestinesi si completano a vicenda in modo geniale. L'atteggiamento degli uni si ritrova, rispecchiato a rovescio, negli altri. Gli hardliner da entrambe le parti, per esempio, possono non far grosse differenze tra Haifa in Israele e Hebron nei territori occupati. Ma finché la liberazione di Hebron da parte palestinese viene dichiarata il primo passo verso la liberazione di Haifa, allora perfino gli israeliani, disposti al compromesso favorevole alla restituzione di Hebron ci penserebbero due volte prima di ritirarsi dai territori occupati. Finché non sarà inequivocabilmente chiaro che l'esigenza di costituire uno stato palestinese non è una leva con cui scardinare l'esistenza dello stato israeliano, fÌnché non è chiaro cioè che il ritiro da Hebron e Nablus non è l'ouverture al ritiro da Haifa e Natanya, fino a quel momento la maggior parte degli israeliani riterrà il proseguimento dell'occupazione il male minore rispetto al proprio ritiro. Inoltre essi fanno presente che fino al 1967 i territori occupati erano sotto dominio giordano o egiziano e che nessuno aveva impedito ai giordani o agli egiziani di accordare ai palestinesi quell'indipendenza che viene negata loro, da quel momento, dagli israeliani. Gli ebrei hanno perciò motivo di temere che una nuova divisione del paese non porrebbe fine al conflitto, ma indebolirebbe unicamente la posizione israeliana. Allo stesso modo i palestinesi hanno motivi non meno buoni di essere diffidenti. Israele punta all'annessione strisciante di "Giudea e Samaria", i sostenitori del "movimento Grande Israele" pure non vedono nessuna differenza tra Hebron e Haifa, per quanto riguarda le rivendicazioni di Israele sul paese. Perché allora i palestinesi dovrebbero accettare la perdita di Jaffa e Acri del 1948 e limitare le loro pretese alle zone conquistate da Israele nel 1967, se un simile atteggiamento da parte israeliana non fosse ripagato con concessioni? Gli israeliani che non sono disposti a rinunciare alla costa occidentale e alla striscia di Gaza si comportano esattamente come i palestinesi che parlano della "città di Tel Aviv nei territori occupati dal 1948". Entrambi reclamano "tutta la Palestina" per sé - il simbolo grafico dell'OLP e quello del partito nazionale Herut in Israele hanno la stessa forma. Entrambi vedono in un compromesso territoriale, cioè in una rinuncia parziale, la perdita dei propri interessi, la capitolazione di fronte al nemico. Il conflitto potrebbe terminare solo se si riuscisse a neutralizzare la sfiducia delle due parti: a togliere la paura che gli uni hanno degli altri e viceversa. Ciò che sembra così sem-

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