Linea d'ombra - anno VI - n. 28 - giugno 1988

GIUGNO 1988 - NUMERO 28 LIRE6.000 mensile di storie, immagini, discussioni

San Paolo: una banca ricca. Di iniziative. 1987: nuovi sportelli in Italia, uffici di rappresentanza a Stoccolma e a Tokyo, una presenza in India, importanti accordi di collaborazione con il Gruppo Suez, l'ingresso nella Banque Vernes, nel Matif di Parigi, costituzione di Sanpaolo-Hambros, Sanpaolo Progetti, SanpaoloSviluppo e Sanpaolo Formazione. E ancora: emissioni in eurolire, partecipazione ad imUn anno denso per il San Paolo, caratterizzato da effervescenza di idee, sviluppo di iniziative, grande dinamismo. Come 1'88 e gli anni che verranno. Fantasia, determinazione e serietà: soprattutto per questo il San Paolo è una banca ricca. portanti prestiti internazionali; finan- .-,,.,,"'''''" ziamenti per l'ecologia alle piccole e medie imprese; nuovi prodotti bancari.

PrimoLevi Opere Volume s condo Romanezpi oesie Questo secondo volume delle Opere ospita i romanzi-invenzione (La chiavea stella,Senon ora, quando?) con cui Levi si è affermato scrittore a pieno titolo, e le poesie (Ad orain.certa), originale elaborazione dei suoi temi civili e umani. Introduzione di Cesare Segre. «Biblioteca dell'Orso, pp. xxxv-640, L. 42 ooo lanMcEwan Bambinieltempo Il mistero di una bambina rapita e inutilmente ricercata attraverso i percorsi della memoria, è al centro del nuovo romanzo del piu sottile e inquietante scrittore inglese d'oggi. Traduzione di Susanna Basso. «Supercoralli», pp. 219, L. 22 ooo FabriziRaamondino Ungiorneomezzo Napoli, settembre 1969: una generaziçme divisa tra la passione d'un futuro da inventare e lo smarrimento d'una perduta misura del vivere. «Supercoralli», pp. 207, L. 22 ooo ArduinCoantafora Quindisctianzpeerunacasa Quindici storie visionarie e oniriche costruiscono una minuziosa architettura dell'immaginario. «Nuovi Coralli», pp. 255, L. 16 ooo Einaudi Louis-FerdinCanédline Casse-pipe Le disavventure del corazziere Céline, ovvero un viaggio al termine di una sola incredibile notte, alla vigilia della Grande Guerra. Scritto subito dopo Mortea credito questo romanzo incompiuto resta uno dei-grandi libri di Céline. A cura di Ernesto Ferrero. «Nuovi Coralli», pp. 12.3, L. ro ooo Letteratuirtaliana direttdaaAlbertAosoRr osa ------ LA SECONDA PAI.TI DI MAaNl Dl?L .DONI A·l..::..~.;:..,;:-~1,~!'- Storiaegeografia Il. L'etàmoderna Tomoprimo L'apogeo e la crisi della civiltà letteraria italiana: la produzione delle Città-Stato e dell'Umanesimo, Firenze, Siena e la Toscana, Bologna, Ferrara e l'Emilia, Milano, Mantova e la Padania, Napoli e il Meridione, Urbino e le Marche, Venezia e il Veneto. Introduzione di A. Asor Rosa. Saggi di M. Martelli, P. Orvieto, N. De Blasi, A. Varvaro, V. De Caprio, A. Carella, G. M. Anselmi, L. Avellini, E. Raimondi e M. Zancan. pp. xn-741, L. So ooo MosheLewin Storiasocialdeellostalinismo Uno dei maggiori storici sovietici scopre i caratteri del decennio cruciale che vede l'affermarsi dello stalinismo e il configurarsi della società sovietica attuale. Edizione italiana a cura di Andrea Graziosi. «Biblioteca di cultura storica», pp. xvm-.390, L. 50 000 KarlPribram Storiadelpensiereoconomico I. Nalclta diunadllclpllna. 1200-1800 Lo sviluppo del pensiero economico, dal tardo Medioevo fino agli anni '50 di questo secolo, in stretta connessione tra le teorie economiche e l'evoluzione del pensiero occidentale. Traduzione di Nanni Negro. «Pbe», pp. LXXII-.301, L. 22 000 Jean.JacquPeasuvert Sade Un'Innocenza eelvlggla1. 740-1m Sade privato: gli inizi d'una tragica carriera di libertino. «Saggi», pp. xx-.344, L. .34 ooo PatriziGauarnieri L'ammazzabambini LeggescienzInaunprocestsoscandoifine Ottocento Una serie di delitti, consumati a Incisa Valdarno fra il 1873 e il 1875 scatena una polemica fra magistrati, medici e psichiatri, che diventa significativa di un'intera stagione dell'antropologia culturale. «Microstorie», pp. vn-224 con 6 illustrazioni nel testo e r cartina, L. 2 2 ooo GregorByateson Naven La descrizione di un rituale di travestimento in Nuova Guinea e i suoi significati simbolici. Una ricerca che si è imposta come un modello di metodo. Traduzione di Barbara Fiore Cardona. «Microstorie», pp. r.n-.326 con 21 illustrazioni fuori testo, L. .38 ooo

~ ~ ~ ora mensile, in edicola e in libreria ~ ~ llNIAD'OMBRA ~ 10. !~: ~ Anders, Bufluel, Cortazar, ~ ~ Faulkner, Genet, Kubrick... ~ 0 Morante, Orwe/1, Pasolini, ~ ~~--'"""" I Simone Weil. .. I ~ ~ ~ la letteratura e la scienza, ~ l'arte e lo spettacolo, la politica e la morale: una rivista d'opposizione per conoscere e scegliere ~ ~ ~ CAMPAGNA ABBONAMENTI a ogni abbonato un libro in dono: li lavoro del Living Theatre (ad esaurimento), Racconti cinematografici di Werner Herzog (Ubulibri) lire 50.000 annuali su c.c.p. 54140207 intestato a Linea d'Ombra Edizioni Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano

Rimini,Riccione,Bellaria-JgeaMarina, Cattolica,MisallOAdriatico,~•~-. SantarcangeloVerltCchio sis ,wassociate inRimini & Co. · f~~ ' l'impresaeuropeadellevacanze ... ... - . . e e cultura é cornunicazt0n comprensorio turisticod'Europacordialitàconvivialità consolidata ospitalitàcoinvolgimento cosmopolitismo costae collinaconchiglie corollecozzecoccinelle cocomeri cocktails compagni di giochie di avventure controcor . ~~~ rentecontagiare d'allegriacorpicolo: · ritiecolorati col ombiecolombelle conigliette conos cereconeggiare c onturbareco nquistarecorrispo ~mm~a~~ nderecotta coccole coppiaconi s.w---_-_ ---~.....,~I!~-.-=~~ gelatoeco ppedichampag._~ ~- necomfort cortesiacorrobor ~: ... :. -- 1111 arsicorrerecom unicazione ecultur _ ~~~ acompetizioni c RIMINIRICCIONE BELLARIA-IGEA M RINA CATroUr.A MISANOADRIAl'ICO SAN'D\RCANGEW VER~O ~~'(}f. Azienda di PromozioneTuristica del Circondario diRimini . . ngress1econvegni cooperazione c certi coloridellanottecol azioneinriva lmar eall'albacolbombolo necolmodellafelicità. 47037Rimini/Pimalelndipendema, 3 T.0541 -51331

Direuore Goffredo Foti Direzioneeditoriale Lia Sacerdote Grupporedazionale Adelina Aletti, Giancarlo Ascari, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Stefano Senni, Alfonso Berardinelli, Paolo Beninetti, Gianfranco Betiin, Franco Brioschi, Marisa Caramella, Cesare Cases, Severino Cesari, Grazia Cherchi, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Stefano De Matteis, Bruno Falcetto, Fabio Gambaro, Piergiorgio Giacché, Aurelio Grimaldi, Giovanni Jervis, Filippo La Pana, Gad Lemer, Claudio Lolli, Marco Lombardo Radice, Maria Maderna, Luigi Manconi, Danilo Manera, Edoarda Masi, Santina Mobiglia, Maria Nadotti, Antonello Negri, Cesare Pianciola, Gianandrea Piccioli, Bruno Pischedda, Fabrizia Ramondino, Alessandra Riccio, Robeno Rossi, Franco Serra, Marino Sinibaldi, Paola Splendore, Gianni Turchetta, Emanuele Vinassa de Regny, Gianni Volpi. ProgettoGrafico Andrea Rauch/Graphiti Ricercheiconografiche Carla Rabuffetti Pubblicitàsettoreeditoriale Emanuela Merli Via Giolitti, 40 - 10123Torino Tel. 011/832255 Hanno inoltrecollaboratoa questonumero: Pasquale Alferi, Filippo Azimonti, Francesco Cavallone, Roberto Cazzola, Miriam Corradi, Paola Costa, Vincenzo Cottinelli, Giorgio Ferrari, Regina Hayon Cohen, Bruno Mari, Roberta Mazzanti, Erika Mazzotti, Grazia Neri, Cristina Peraboni, Eckart Plinke, Emanuela Re, l'Istituto Goethe, la Galleria Nuages, gli uffici stampa della Feltrinelli e della Garzanti, le librerie La Nuova Corsia e Feltrinelli di Via Manzoni, Milano. Editore Linea d'Ombra Edizioni srl Via Gaffurio, 4 - 20124 Milano Tel. 02/6690931-6691132 Fotocomposizionee montaggi multiCOMPOS snc Distribuzionenelleedicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. Via Famagosta, 75 - Milano Telefono 02/8467545-8464950 Distribuzionenelle librerie PDE - Viale Manfredo Fanti, 91 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Puccini, 6 Buccinasco (Ml) - Tel. 02/4473146 LINEA D'OMBRA mensiledi storie, immagini,discussioni· Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393 Direttore responsabile: Goffredo Foti Sped. Abb. Post. Gruppo IIl/70"lo Numero 28 - Lire 6.000 Abbonamenti Abbonamento annuale: 1TALIA: L. 50.000 da versare a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'Ombra ESTERO: L. 70.000 I manoscritti non vengono restituiti Si rispondea discrezionedella redazione. Si pubblicanopoesiesolo su richiesta. llNUO'DMBRA anno VI giugno 1988 numero 28 EDITORIALI 6 7 IO 16 17 18 L. Balbo, L. Monconi, G.E. Rusconi Henryk M. Eroder S. Levi Della Torre Primo Levi Luigi Monconi Mario Cuminetti Progetto Italia-Razzismo La questione Israele-Palestina Una svolta indispensabile L'accento sulla Diaspora a cura di Gad Lerner Laico a chi? Annunciare la speranza IL CONTESTO 21 Eventi (V. Dini sulla nuova traduzione del Capitale); Scuola (G. Pontremoli sul "prezzemolo Rodari"); Horror (S. Benni sui premi letterari); Fumetto (G. Fofi sulla mostra "Melting Pot"); Teatro (S. De Matteis sull'ultimo Kantor, M. Moderna sul Miiller dei Magazzini); Cinema (M. Schiavo su film di M. Lepage e L. Pool, G. Pedote su Sammy e Rosie vanno a letto); Memoria (F. Gambaro su Alan S. Paton); Lettere (di G. Orunesu, L. Passi e E. Tiezzi, di G. Viaggio e di S. Corduas). POESIA 68 Seamus Deane STORIE 40 53 73 74 Franco Ma11icchio José Revueltas Bernardo Atxaga Luigi Prencipe INCONTRI 36 64 Jean-Michel Folon, Mi/ton Glaser Seamus Deane SAGGI 35 42 46 49 70 Claude Simon Hans Mayer Alfonso Berardinelli Cesare Cases, Hans Magnus Enzensberger Milorad Pavic Promemoria Poesie L'uomo nero Carcere d'isolamento Per scrivere un racconto in cinque minuti Più di mezza vita davanti In assenza di un credo a cura di Giancarlo Ascari e Franco Serra Poesia e colonialismo a cura di Giovanni Pillonca Orione cieco La letteratura rieducata Gruppo 47 e Gruppo 63. Un confronto Il Gruppo 47 (nel 1963) La struttura del "Dizionario càzaro" 78 79 Gli autori di questo numero La copertina di questo numero è di Altan (distr. Quipos)

DISCUSSIONE/ 11 ITALIA•RAZ:Z:ISMO'' 'PROGETTO ITALIA•RAZZISMO Laura Balbo, Luigi Manconi, Gian Enrico Rusconi Negli anni che abbiamo davanti il rapporto tra persone di diverse etnie, culture, religioni, costumi, storie, pratiche di vita, diventerà un dato dell'esperienza quotidiana di ognuno, e un riferimento per la definizione dell'identità collettiva nazionale. In molti paesi europei questo già è accaduto. Da noi, viceversa, la questione che per il momento indichiamo con il termine "razzismo" è certo, per la maggioranza, un nodo cruciale rispetto ai valori di democrazia, tolleranza, civiltà, individuati come fondamento della convivenza civile della nostra società, ma rimane una astratta questione di principio. Viceversa diventerà, o meglio in qualche misura sta già diventando, questione quotidiana e concreta; ma assai poco ne abbiamo preso coscienza. Riconoscere le condizioni e i processi <.hemuovono in questa direzione, cercando di evitare che la società italiana diventi, come molte altre, plurietnica e pluriculturale senza avere attivato meccanismi di anticipazione, di consapevolezza e di elaborazione culturale, è il senso del "progetto Italia-Razzismo". "Progetto", nel senso che per sua natura la questione non può essere affrontata con un'unica modalità (proposte di legge, interventi amministrativi, iniziative di formazione e di informazione), ma implica un percorso nel quale coesistono molteplici soggetti, modi, iniziative; necessariamente a scadenza non immediata; e, paradossalmente per una forza parlamentare e politica, con modalità di azione in larga misura "invisibili", sotterranee, silenziose. Necessario è dunque riconcettualizzare il termine stesso "razzismo" nell'odierno contesto della società italiana e mondiale, promuovere la conoscenza dei processi psicologici e delle dinamiche sociali rilevanti, attivare pratiche educative e formative, a livello di massa, senza tuttavia semplificare e senza banalizzare i meccanismi e i dati complessi che sono presenti nella situazione attuale. In altre parole, bisogna essere consapevoli del fatto che si agisce sui meccanismi profondi dell'identità individuale e della strutturazione di una cultura di riferimento; e che il punto da cui partire è la messa in discussione delle modalità, fin qui prevalenti, di rimozione del problema o di colpevolizzazione senza approfondimento o dell'accettazione non detta di discriminazioni di fatto. Se l'obiettivo è di promuovere consapevolezza e cultura, in senso antropologico, o (per usare le parole del recente rapporto Sur le racisme et /es discriminations en France) una "pedagogia della tolleranza", si tratta di creare nel tessuto stesso della vita quotidiana condizioni e risorse adeguate al percorso in direzione di una società plurietnica e pluriculturale. Per anticipare questa questione nel dibattito politico italiano, evitando interventi "di emergenza", occasionali e con 6 tutta probabilità controproducenti, alcuni parlamentari della Sinistra Indipendente (Laura Balbo, Franca Basaglia, Vittorio Foa, Natalia Ginzburg, Massimo Riva, Stefano Rodotà) hanno promosso il progetto "Italia-Razzismo". Per la sua stessa natura, si tratta di un'iniziativa aperta all'adesione di altre forze parlamentari, politiche, associative, impegnate sul piano dei diritti civili e di libertà. Essa non si sostituisce ad altri soggetti, già attivi in terreni "contigui" (associazioni e gruppi nel campo dei diritti degli immigrati e delle minoranze; enti locali; sindacati; iniziative sociali e culturali per i problemi del terzo mondo; soggetti attivi per la tutela dei diritti civili). Sul piano organizzativo, il progetto è affidato all'IRD (Agenzia di Informazione, Ricerca, Documentazione e consulenza per l'attività politico-legislativa), e in particolare a un gruppo di lavoro coordinato da Laura Balbo e Luigi Manconi. Alcuni studiosi di differenti discipline ed esperienze contribuiranno a definire il programma di lavoro e a delinearne il campo e gli strumenti. Il ruolo di "garante" dell'iniziativa sarà affidato a un comitato di persone che fanno parte sia del mondo politico, sia del mondo della cultura. Tra le proposte che formuliamo: l. PARLAMENTO. Proposta di inchiesta parlamentare, anche in riferimento all'iniziativa analoga del Parlamento europeo del 1986, e iniziative sistematiche (interrogazioni, interpellanze, ecc.) su "casi" di particolare gravità o rilevanza. Presentazione di una mozione perché il Parlamento italiano recepisca quanto prima la risoluzione adottata dal Parlamento europeo a conclusione dei lavori della Commissione d'inchiesta sul razzismo e la xenofobia. Proposta di legge per attribuire agli immigrati residenti il diritto di voto e sostegno ad ogni iniziativa o proposta che concretamente favorisca l'integrazione degli immigrati e la tutela dei diritti delle minoranze etniche, religiose, culturali. 2. MEZZI DI INFORMAZIONE. Rassegna stampa periodica su tutti gli episodi di sciovinismo, xenofobia, antisemitismo e razzismo, e di intolleranza verso le minoranze, comprese quelle sessuali, che si verificano nel paese. Iniziative di monitoraggio delle modalità (spazio e linguaggio) con cui gli episodi di intolleranza e discriminazione vengono riportati dai mezzi di informazione, con particolare riferimento alla stampa locale, per documentare vicende e tendenze della periferia e per "vigilare" su come stampa, radio e televisioni meno "esposti" e meno accorti fanno informazione a proposito delle minoranze. "Ricostruzione" di vicende particolarmente emblematiche (per le tendenze all'intolleranza che rivelano) su cui impegnare le testate, anche radiotelevisive, dichiaratesi disponibili (il modello è la rubrica "Il prigioniero del mese" che, a firma di Amnesty International, viene pubblicata da molti giornali di tutto il mondo). 3. SCUOLA E ASSOCIAZIONISMO GIOVANILE. Organizzazione di un incontro tra i rettori per far emergere i problemi, e il potenziale significato positivo, della presenza di studenti stranieri nelle università italiane. Si sta attuando un "censimento" degli insegnamenti o progetti di ricerca a livello univer-

sitario (se ne esistono), nell'ambito di discipline come la sociologia, l'antropologia culturale, la psicologia sociale. Inoltre, si può pensare di far istituire borse di studio su questi temi. Dovrebbero essere terreno privilegiato dell'opera di formazione, con particolare attenzione al significato di questa tematica per le generazioni giovani, alle dinamiche comunicative dell'istituzione scolastica, alle modalità di trasmissioneeducazione proprie di una tematica legata a tratti profondi della personalità, a pratiche di interazione interpersonale, a tradizioni culturali e familiari, ecc. 4. DOCUMENTAZIONE E RICERCA. Utilizzazione di dati statistici (lstat) e di risultati di indagini esistenti. Programma di ricerche affidato a un comitato creato ad hoc (del quale dovrebbero far parte docenti e ricercatori con specifica esperienza in questo campo, esperti dell'lstat, ecc.). È evidente che per questa parte del progetto (come per altre, quando lo si ritenga utile) ci si avvarrà della competenza di istituti e di studiosi stranieri e di organismi internazionali. Queste note costituiscono la prima base di una proposta e di un confronto per l'insieme di iniziative avviate e da avviare nell'ambito del progetto. Verranno a mano a mano meglio definiti gli ambiti, le priorità e le caratteristiche delle fasi successive. Agenzia l.R.D. c/o Gruppo Parlamentare Sinistra Indipendente, via Uffici del Vicario 21, te/. 6797441 - 00186 Roma ..CofJ IL M - ·;ltVio,\::;'. ··', . ' . . ' .::·.' . : \,. ··1 .-: .·· . •·.·_.rif·~~~{04t-JO . :t>c: (içS~RE, ..· •,qt~·LtANO·.-. . ·:•, . JJ~A . ~-i·tA:. , l"3~€AlOtrf6'.·. ' ..., CJf ·. ìJol..J 0:6' ~1""o~, ~eR: CA ·çoctéf A/ ,,·· . Vl(J,l'f\ tÀ1/tt~Lf be-C 1;0 o.o· @tN?ltJO]. Da "Tango" del 16-5-1988. DISCUSSIONE/BRODER LAQUESTIONE ISRAELE-PALESTINA SIPENSA,SIPARJ.AESIAGIStl IGNORANDOSI Henryk M. Eroder È un conflitto ormai "adulto" ed è cominciato tanto tempo fa. È difficile stabilire quando. Forse nel 1882, quando la prima grande ondata migratoria portò nel paese più di 20.000 ebrei, soprattutto dalla Russia. O nel 1896, l'anno in cui fu pubblicato il saggio di Theodor Herzl Lo stato ebraico. Tentativo di una soluzione moderna alla questione ebraica. O l'anno seguente, quando a Basilea fu indetto il primo congresso sionista, il quale stilò un programma di massima che inizia con le parole: "Il sionismo ha per scopo la creazione di un popolo ebraico, di una patria in Palestina, garantita dal punto di vista del diritto pubblico". O nel 1917, quando il ministro degli esteri inglese Lord Balfour dichiarò che il governo di Sua Maestà assicurava di guardare con "benevolenza al costituirsi di una sede nazionale per il popolo ebraico in Palestina" e allo stesso tempo prometteva "di fare grandi sforzi per raggiungere questo scopo". Oppure il conflitto è iniziato solo nel 1937, quando una commissione d'inchiesta inglese, guidata da Lord Peel, propose la divisione della Palestina in uno stato ebraico e in uno arabo? Dieci anni dopo, nel 1947, le Nazioni Unite decisero di dividere il mandato inglese della Palestina tra ebrei e arabi. Quando David Ben-Gurion nel 1948 proclamò lo "stato ebraico di Israele nel paese di Israele'', la lotta per la Palestina conobbe un'ulteriore escalation, ma era ben lungi dall'essere decisa. In questi quarant'anni l'escalation è progredita e a ogni avanzamento del conflitto si sono moltiplicate la grida di:· Così non può andare avanti, bisogna trovare finalmente una soluzione al problema palestinese. Ci sono state dozzine di iniziative, programmi, proposte, tutti finiti nel mucchio di spazzatura della storia. Stranamente, quasi nessuno si ricorda della divisione del subcontinente indiano tra India e Pakistan (più di dieci milioni di emigrati e profughi). La divisione di Cipro è stata accettata. La Repubblica Federale ha rinunciato a reclamare gli ex-territori tedeschi dell'est. L'Indonesia ha inglobato le Molucche e la parte est di Timor, il Marocco e la Mauritania si sono spartiti il Sahara spagnolo, il Vietnam del Nord si è preso il Vietnam del Sud, l'Unione Sovietica non pensa di restituire la Carelia alla Finlandia e Leopoli alla Polonia. Milioni di persone sono state cacciate, sospinte di qua e di là, derubate della loro patria. Dalla fine della seconda guerra mondiale non sono mancati i çonflitti nel cui corso si siano verificati cambi di proprietà o redistribuzioni di grandi territori. L'opinione pubblica mondiale, così come le persone direttamente coinvolte, hanno fatto rientrare questi conflitti nella "normale" amministrazione, con una eccezione: il conflitto in Palestina, la lotta tra ebrei e arabi per lo stesso pezzo di terra, tiene il mondo impegnato 7

DISCUSSIONI/BRODIR costantemente e non reca pace ai protagonisti di questo conflitto. Si tratta, qui, di un caso di rilevanza modesta, di una lotta tra province. La lotta per l'Alsazia-Lorena costituì invece seri motivi di preoccupazione e di rivalità secolari. Che cosa caratterizza la persistenza del conflitto mediorientale e che cosa ne impedisce la soluzione coi mezzi della ragione pratica? Sono due le caratteristiche che distinguono il conflitto del Medio Oriente da ogni altro. Un popolo, che vive sparso per tutto il mondo, ha deciso di avere uno stato per sé e reclama a questo scopo un pezzo di terra in cui duemila anni fa hanno vissuto i suoi antenati. La presa di possesso di questa terra, effettuata in modo sistematico e ponderato, viene definita "ritorno, ritorno a casa", sebbene nessuno di quelli che tornano a "casa" abbia mai visto il paese che definisce patria. Si tratta in realtà di un evento unico, che non ha paralleli nella storia recente. Paragoni col colonialismo europeo, con la presenza dei francesi in Algeria, dei belgi in Congo, degli italiani in Abissinia non sarebbero pertinenti. In tutti questi casi c'era una "madrepatria" da cui i colonialisti provenivano e in èui, dopo aver lasciato le colonie, poterono tornare. Gli ebrei che s'insediavano in Palestina costituirono anch'essi, in realtà, delle "colonie", non erano però rappresentanti dei loro paesi d'origine. Non interessava loro aumentarne il benessere e neppure pensavano a tornare poi da dove erano venuti. Rimanevano "russi", "polacchi", "tedeschi", per ciò che riguardava la lingua, la cucina, la cultura. Tuttavia, erano prima di tutto ebrei, arrivati in Palestina, la loro patria storica, per costruire lo stato ebraico, per non dovere dipendere dalla ospitalità o ostilità dei rispettivi paesi. Comprenderlo non è semplice, il ritorno degli ebrei in Palestina implica un elemento metafisico, incomprensibile coi mezzi dell'algebra politica. Se i romani di oggi, dopo duemila anni, reclamassero per sé la valle del Reno, si tratterebbe dello stesso caso, ma non paragona- _bile,poiché la nazione dei romani è già una realtà, e non esiste nella liturgia romana alcuna preghiera che inizi con le parole "il prossimo anno a Colonia sul Reno". Il secondo elemento che distingue radicalmente il conflitto in Medio Oriente da ogni altro, è il fatto che molte parti vi siano coinvolte. Nell'Irlanda del Nord si fronteggiano irlandesi e inglesi, nei Paesi Baschi baschi e spagnoli, in Alto Adige austriaci e italiani. È vero che in Palestina si combattono ebrei e arabi, sono loro a essere direttamente coinvolti, però su questo non riescono a dire molto. Molti altri partner si immischiano, dal Vaticano fino alla Repubblica Popolare Cinese. La Palestina è una everyman's land. La situazione non è nuova, già al tempo dell'impero osmanico i rappresentanti di stati europei avevano diritti sovrani in Palestina. C'erano una rete di comunicazioni postali russa, una tedesca, una italiana, una asburgica, le rappresentanze consolari esercitavano funzioni che, in uno stato sovrano, spetterebbero al governo. L'idea di internazionalizzare Gerusalemme potrebbe avere origine in questa tradizione, come pure lo sforzo della comunità europea di prender parte al conflitto mediorientale, a accompagnandolo con dichiarazioni, deliberazioni. Non passa mese che un qualunque politico della CEE si rechi a Gerusalemme per una f act-finding-mission e annunci la seria decisione da parte del suo governo o dell'Europa di trovare finalmente la formula per la giusta soluzione del conflitto. Politici, che tra di loro non riescono neppure ad accordarsi sulle sovvenzioni per la coltivazione del luppolo o sull'abolizione dei privilegi daziari, sanno molto esattamente in che cosa sbagliano ebrei e arabi in Palestina e che cosa dovrebbero fare per porre fine al conflitto. I diritti storico-metafisici degli ebrei sulla Palestina, che furono appoggiati dalla comunità internazionale solo sotto l'impatto del terrore nazista e per cattiva coscienza, e il coinvolgimento di terzi che svolgono ruolo di consiglieri da una distanza di sicurezza, rendono il conflitto mediorientale una questione stratificata, complicata. Solo questi due elementi basterebbero per rifornire di compiti a casa un esercito di politologi per un lungo periodo. Inoltre c'è un problema che fa assurgere la questione al rango di un'assurda messinscena, i cui interpreti principali parlano fin dall'inizio due lingue diverse e quindi hanno una reputazione sbagliata l'uno dell'altro. È come se dei cannibali e dei vegetariani cercassero di discutere sulla dieta giusta. I palestinesi vedono negli ebrei degli invasori, che in Palestina non hanno perso nulla e quindi non hanno nulla da cercare. Che cosa importa loro dei pogrom in Russia e della legge di Norimberga? Non sono responsabili delle persecuzioni degli ebrei in Europa e non vogliono, a ragione, pagare per le colpe degli europei. La vecchia nostalgia di Sion degli ebrei ("l'anno prossimo a Gerusalemme") non può spingere nessun palestinese a lasciare la sua casa o il suo pezzo di terra e darla di sua spontanea volontà a un immigrato ebreo. È pur sempre valido quel passo nella "Charta" dell'OLP, che non riconosce a nessun ebreo, arrivato in Palestina dopo il 1917, il diritto di patria e ne raccomanda il ritorno nel paese di provenienza. Gli acquisti di terra da parte dei sionisti fino al 1948, che furono avviati con latifondisti per lo più residenti fuori dalla Palestina, erano in realtà perfettamente legali, ma andarono a sfavore dei fittavoli palestinesi che coltivavano la terra poi venduta agli ebrei. E la soluzione di divisione delle Nazioni Unite fu attuata senza che ai palestinesi fosse chiesto il loro assenso. Essi videro nella decisione solo la sanzione del torto a loro fatto. Hanno dunque molti buoni motivi per rifiutare la "invasione sionista", per opporvisi. Dal loro punto di vista, Israele non è il piccolo Davide che combatte per la sua sopravvivenza, ma una potenza in continua espansione. Il territorio di Israele, dopo la guerra di indipendenza, era diventato più grande. E l'occupazione della costa occidentale e di Gaza non è considerata una situazione di passaggio, bensì un altro tentativo riuscito nel portare via ai palestinesi la loro terra. Essi non solo si sentono minacciati da Israele nella loro esistenza: lo sono veramente. E quanto meno riescono a trovare una spiegazione alle loro continue sconfitte, tanto più si rifugiano nel regno dei miti e delle leggende. Esistono palestinesi che affermano

Foto di Livia Sismondi. seriamente che gli inglesi, prima della loro partenza dalla Palestina nella primavera del 1948, avrebbero informato solo gli ebrei, mentre avrebbero nascosto ai palestinesi che gli ebrei erano armati dagli inglesi stessi ecc. La teoria di Israele come "testa di ponte dell'imperialismo" ha negli ultimi tempi perso qualcosa della sua popolarità e della sua diffusione, viene però sempre portata in campo da interlocutori marxisticamente addestrati. Molto frequentata è anche l'analogia con i crociati, che non poterono fermarsi a lungo in Palestina. Così, dicono molti palestinesi, succederà alla fine anche ai sionisti. La maggioranza dei palestinesi non ha fino a oggi ancora capito perché gli ebrei abbiano lasciato i loro ghetti di lusso in Europa per stabilirsi nel deserto, e considera la presenza ebraica come nazione in Palestina una situazione non definitiva, la cui fine prima o poi sarà inevitabile. E se dovessero aspettare cento o duecento anni, che cosa sono mai in confronto all'eternità: Allah è grande, pensa lui alla giustizia. Da parte ebraica, il punto di vista sui palestinesi è caratterizzato da un sogno simile. Ci si immagina l'avversario come lo si vorrebbe avere, la cosa migliore sarebbe che non esistesse. Negli scritti di Theodor Herzl non si parla neppure dei precedenti abitanti della Palestina; la maggior parte dei teorici sionisti, a parte alcuni socialisti, non considerarono il fatto, o ignorarono di proposito, che la Palestina fosse sì un paese scarsamente popolato, ma non certo spopolato. Si applicava lo slogan: "Un paese senza popolo per un popolo senza paese". E ogni volta che la coscienza nazionale degli arabi di Paiestina si rivelava in modo esplosivo, gli ebrei se ne stupivano enormemente. Così è stato nel 1929, quando la comunità ebraica fu massacrata a Hebron, così nella rivolta dal 1936 al 1939 contro il dominio coloniale britannico e l'emigrazione ebraica, così è stato negli anni dal 1947 al 1949, quando Israele fu fondato, e così è oggi: i palestinesi a Gaza, Hebron e Gerusalemme si ribellano all'occupazione ebraica. "Ma che cosa vogliono", si chiede il tipico ebreo, "non gli è mai andata così bene come oggi. .. ". Sono stati portati nel paese l'acqua corrente, l'istruzione obbligatoria e il telefono, la cultura e la civiltà insomma, e invece di essere riconoscenti i palestinesi fanno casino e pretendono diritti politici. Così pensano molti ebrei che di solito si ritengono liberali e aperti. E se i palestinesi vengono visti come unità nazionale e non in primo luogo come indigeni residenti, ecco che si formulano riflessioni demografiche: quanto deve essere alto il tasso di natalità ebraico per impedire che la minoranza araba diventi maggioranza. Avere figli diventa un dovere nazionale, sotto ogni letto matrimoniale ticchetta una "bomba a orologeria demografica". Se gli esiti di tali calcoli confermano le paure e non le speranze, ne risulta che in tempo prevedibile ci saranno più palestinesi che ebrei nella "Grande Israele"; allora resta soltanto la fuga nella fantasia criminale. Alcuni politici israeliani hanno proposto un "transfer" dei palestinesi nei vicini stati arabi, in tutta serietà e senza preoccuparsi dell'effetto di tali idee sullo spirito dei palestinesi e sulla immagine di Israele. DISCUSSIONE/BRODER Se i palestinesi non riescono a capire perché gli ebrei sono venuti in Palestina, allo stesso modo agli ebrei non entra in testa come mai i palestinesi non si accontentino di contribuire, come minatori, camerieri e carrozzieri, al prodotto nazionale lordo israeliano. Se molti palestinesi vorrebbero rispedire gli ebrei a Leopoli, Praga o Dachau, allo stesso modo molti israeliani pensano che Damasco, Riad e Amman siano bei posti, dove si possa vivere bene. Anche oltre cent'anni dopo l'inizio della guerra arabo-israeliana, né gli ebrei né i palestinesi hanno capito la semplice verità che li unisce: nessuna delle due parti può cacciare in mare o disperdere nel deserto l'altra. Salvo che al prezzo della propria rovina. In questa situazione si potrebbe trovare la "soluzione pacifica totale del conflitto" tanto agognata? Si potrebbe trovare. "Non vi capisco", disse l'europeo, un parlamentare tedesco, "perché non vi sedete a un tavolo con i palestinesi, parlate con loro, ognuna delle due parti cede un po' e alla fine vien fuori il compromesso. Perché non si può?". Buona domanda. Visto dall'Europa, il conflitto mediorientale sembra una rissa da taverna, in cui dei terzi illuminati devono energicamente richiamare all'ordine i contendenti perché la smettano di litigare inutilmente. Se solo gli ebrei e gli arabi non fossero così rigidi e dimostrassero, tutt'e due, un po' di buona volontà ... Ma con buon senso e buona volontà non è mai stato sopito alcun conflitto nazionale, e il Medio Oriente non è la zona adatta per verificare l'efficacia di appelli che già in paesi civilizzati si sono rivelati inutili. Quanto c'è voluto perché i tedeschi e i francesi abbandonassero la tradizionale inimicizia secolare? Perché i cattolici e i protestanti irlandesi a Belfast non riescono ad andare d'accordo? Perché non c'è ancora, in Europa, a più di quarant'anni dalla guerra, nessun trattato di pace? Il confine tra la RFT e i Paesi Bassi, per esempio, è solo una frontiera sulla carta. Chi va da Aquisgrana a Maastricht attraversa soltanto una "linea di armistizio"; dal pun-

DISCUSSIONI/BRODIR to di vista del diritto internazionale, la RFT si trova ancora in stato di guerra con i suoi vicini, una situazione assurda, ma finché nessuno la prende alla lettera si continua a convivere con essa. Gli israeliani e_ipalestinesi non sono le uniche collettività ad affrontare il fatto non facile di riconoscere delle realtà, di accettare dei fatti compiuti. Se un politico tedesco dichiara che le prospettive per una riconciliazione sono pessime, viene subito tacciato di disfattismo, benché tutti sappiano che ha ragione. Si cerca di non ripetere le opzioni considerate ormai meno originali. Se non fosse così, il conflitto in Palestina sarebbe finito da un pezzo. I palestinesi avrebbero riconosciuto il diritto degli ebrei di organizzarsi come nazione in Palestina, gli ebrei quello di autogestione dei palestinesi. Ci sarebbero uno stato ebraico e uno palestinese tra il Giordano e il Mediterraneo, i cui rapporti sarebbero non necessariamente cordiali, ma normali. Si farebbe contrabbando oltre-frontiera di apparecchi video, orologi Swatch e film porno, gli ebrei andrebbero a Gerico e sul Mar Morto, e i palestinesi sulla spiaggia di Tel Aviv. Entrambi i popoli potrebbero approfittare di una situazione alla cui realizzazione non sono evidentemente molto interessati. Back to square one: perché allora buon senso e buona volontà non si impongono? Il conflitto tra israeliani e palestinesi è condotto con terminologia europea, eppure secondo regole del gioco che hanno la loro origine nel paese. Si parla di democrazia, indipendenza e a volte addirittura di socialismo, in realtà si tratta di principi, di dignità e di prestigio. Cedere significa perdere la faccia, un compromesso equivale quasi a una sconfitta. Chi si considera nel giusto - e cioè ognuna delle parti - si spezza piuttosto che piegarsi anche solo di un minimo. La dignità nazionale non concede mezze misure. Poiché gli israeliani sono convinti che il paese appartiene a loro, e poiché i palestinesi la pensano al contrario, ma allo stesso modo, nessuna delle due parti farà una concessione all'altra. Secondo la logica locale, cedere di un dito comporterebbe la perdita dell'intera mano. Finché continua il conflitto in Palestina, la situazione non può essere decisa in modo definitivo; ogni parte può credere di riuscire a far girare le cose a proprio favore, non importa se a costo di danni e perdite nel corso della guerra. Una regolamentazione che voglia definire anche formalmente la situazione di fatto, dovrebbe far perdere ai due contendenti proprio questa speranza. Ed è stato sempre più semplice iniziare una guerra che finirla. I palestinesi dovrebbero, dopo aver dichiarato, per quarant'anni, illegittima la presenza sionista in Palestina, accettare di punto in bianco l'esistenza dello stato ebraico? Per che cosa avrebbero allora combattuto e sofferto per due, tre generazioni? Per che cosa sono morti tutti gli eroi e i martiri? Da parte israeliana la situazione è simile. Un compromesso con i palestinesi significherebbe ammettere di avere fatto tanti sbagli, perlomeno negli ultimi venti anni, dalla guerra 10 dei sei giorni, e di avere perso qualcosa. Chi oggi cederebbe i territori occupati dovrebbe chiedersi perché non l'ha fatto prima. Per tutt'e due le parti è valido il motto: perché i sacrifici compiuti non siano stati inutili, il conflitto deve continuare, l'assurdità del domani giustifica la follia di ieri. Così la lotta conserva la propria dinamica che, come un perpetuum mobile, si alimenta da sola. È come viaggiare a marcia in folle a pieno regime, contribuendo al costituirsi dell'identità nazionale sia israeliana che palestinese. . In questo senso israeliani e palestinesi si completano a vicenda in modo geniale. L'atteggiamento degli uni si ritrova, rispecchiato a rovescio, negli altri. Gli hardliner da entrambe le parti, per esempio, possono non far grosse differenze tra Haifa in Israele e Hebron nei territori occupati. Ma finché la liberazione di Hebron da parte palestinese viene dichiarata il primo passo verso la liberazione di Haifa, allora perfino gli israeliani, disposti al compromesso favorevole alla restituzione di Hebron ci penserebbero due volte prima di ritirarsi dai territori occupati. Finché non sarà inequivocabilmente chiaro che l'esigenza di costituire uno stato palestinese non è una leva con cui scardinare l'esistenza dello stato israeliano, fÌnché non è chiaro cioè che il ritiro da Hebron e Nablus non è l'ouverture al ritiro da Haifa e Natanya, fino a quel momento la maggior parte degli israeliani riterrà il proseguimento dell'occupazione il male minore rispetto al proprio ritiro. Inoltre essi fanno presente che fino al 1967 i territori occupati erano sotto dominio giordano o egiziano e che nessuno aveva impedito ai giordani o agli egiziani di accordare ai palestinesi quell'indipendenza che viene negata loro, da quel momento, dagli israeliani. Gli ebrei hanno perciò motivo di temere che una nuova divisione del paese non porrebbe fine al conflitto, ma indebolirebbe unicamente la posizione israeliana. Allo stesso modo i palestinesi hanno motivi non meno buoni di essere diffidenti. Israele punta all'annessione strisciante di "Giudea e Samaria", i sostenitori del "movimento Grande Israele" pure non vedono nessuna differenza tra Hebron e Haifa, per quanto riguarda le rivendicazioni di Israele sul paese. Perché allora i palestinesi dovrebbero accettare la perdita di Jaffa e Acri del 1948 e limitare le loro pretese alle zone conquistate da Israele nel 1967, se un simile atteggiamento da parte israeliana non fosse ripagato con concessioni? Gli israeliani che non sono disposti a rinunciare alla costa occidentale e alla striscia di Gaza si comportano esattamente come i palestinesi che parlano della "città di Tel Aviv nei territori occupati dal 1948". Entrambi reclamano "tutta la Palestina" per sé - il simbolo grafico dell'OLP e quello del partito nazionale Herut in Israele hanno la stessa forma. Entrambi vedono in un compromesso territoriale, cioè in una rinuncia parziale, la perdita dei propri interessi, la capitolazione di fronte al nemico. Il conflitto potrebbe terminare solo se si riuscisse a neutralizzare la sfiducia delle due parti: a togliere la paura che gli uni hanno degli altri e viceversa. Ciò che sembra così sem-

plice e banale è il vero cuore del conflitto. Tutto il resto si può negoziare. Si propongono allora due alternative: o il governo nel paese viene diviso e si forma uno stato binazionale, o il paese viene diviso, ebrei e palestinesi si organizzano separatamente. La prima alternativa, perseguita dagli israeliani di sinistra fino all'inizio degli anni Cinquanta, è storicamente superata, tra l'altro anche perché l'OLP ha usato la sua richiesta di uno "stato democratico, secolare, in tutta la Palestina" come eufemismo per la liquidazione di Israele. Resta allora la seconda possibilità: la divisione del paese. Ma questa soluzione presuppone la convinzione, sia da parte israeliana che palestinese, che essa sia utile agli interessi di entrambi, che un compromesso non implichi perdere la faccia per nessuno e che la continuazione della lotta non farebbe che danneggiare tutti. Tradurre l'analisi astratta in politica concreta non presuppone, unicamente e semplicemente, dì soppesare il pro e il contro. Il carro è talmente sprofondato nel fango che è impossibile tirarlo fuori subito. L'unica chance realistica sarebbe un procedere a piccoli passi, un avanzare per gradi che tenga conto delle paure di tutt'e due le parti. Un simile processo potrebbe durare anni, forse addirittura decenni; chi crede che Israele possa ritirarsi dai territori occupati nel giro di poche settimane si illude. All'avvio dello sblocco palestinese-israeliano devono essere stabiliti gli scopi delle due parti: fine della politica di occupazione e autodeterminazione dei palestinesi. L'autodeterminazione potrebbe cominciare con la costituzione di un governo autonomo che - per quanto inadeguato possa essere agli inizi - rovescerebbe la dinamica del conflitto. I palestinesi avrebbero la possibilità di fondare istituzioni proprie, gli israeliani la chance di rinunciare all'occupazione, a condizione che ci si accordi su una divisione del paese e le due parti riconoscano la spartizione territoriale. Ora però i palestinesi rifiutano tutto ciò che sa di "autonomia". Vogliono uno "stato ora", né di più né di meno. Credono che accettare l'autonomia, come era prevista per esempio nel trattato di Camp David, annulli la loro richiesta · di sovranità, non vogliono accontentarsi di meno di ciò che credono loro diritto. Il rifiuto dell'autonomia si spinge al punto che essi preferiscono continuare l'occupazione piuttosto che ! accettare una simile soluzione parziale. E praticamente imposi sibile far capire ai palestinesi che il trattato di Camp David, i con cui si riconoscevano loro i "diritti nazionali legittimi" dava ai palestinesi più speranze di quante la dichiarazione Balfour promettesse agli ebrei settanta anni fa. Allora si parlava solo della fondazione di una "patria nazionale". Purtroppo ai palestinesi manca qualsiasi senso del pragmatismo che ha determinato la politica dei sionisti: loro hanno preso ciò che hanno potuto e solo dopo hanno riflettuto su come espandere le loro proprietà. Nessuno, da parte ebraica, era soddisfatto del progetto di divisione della Palestina nel 1947. Ma tutti sapevano che era meglio di niente. Allora fu accettato e la zona prevista per lo stato ebraico nella guerra d'indipendenza fortemente ridotta. Nel frattempo anche agli israeliani è venuto meno il senso DISCUSSIONE/LEVI DELLA TORRI pragmatico. Gli ex-pionieri hanno sviluppato un attaccamento ostinato ai propri principi. "Gli ebrei sono venuti per cambiare il paese, ma poi è stato il paese a cambiarli", dice un palestinese. Non ha ancora abbandonato la speranza che israeliani e palestinesi possano diventare un giorno buoni vicini. Però l'iniziativa dovrebbe partire da Israele. "Il più intelligente non deve necessariamente cedere, il più forte può però permettersi di fare il primo passo". (traduzione di Maria Maderna) da "Die Tageszeitung", 19-3-1988. UNASVO&TA INDISPENSABl&E Stefano Levi Della Torre 1. Sono tra i molti che ritengono si debba levare la voce contro la repressione e soprattutto contro l'occupazione coloniale in Cisgiordania e Gaza, e in solidarietà con i palestinesi. Essi hanno tutte le ragioni per scrollarsi di dosso un'occupazione militare straniera e un'annessione strisciante dei territori che abitano, e hanno tutte le ragioni di pretendere l'autodeterminazione in quanto nuova nazione. La sollevazione nei territori dà concretezza e imminenza alla tesi di quanti già da tempo sostengono in Israele che l'occupazione dei territori non è condannabile soltanto perché, in essa, Israele sta dominando una nazione straniera, ma anche perché costituisce una minaccia mortale per i fondamenti stessi dello Stato di Israele. Ho parlato di "suicidio possibile di Israele" perché Israele è arrivato, oggi, a un bivio decisivo è già annunciato. L'ha ripetuto anche Abba Eban (intervista a "La Stampa", 12/1/1988): "Com'è possibile rimanere una democrazia quando il 36% dei tuoi cittadini non ha un posto nel sistema nazionale, non possono essere eletti né votare, non sono tutelati dalle stesse garanzie? Se ci annettiamo i territori, la progressione demografica ci lascia questa alternativa: diventare un regime come il Sud Africa, dove una minoranza governa con il monopolio della forza; oppure diventare uno Stato arabo: perché non siamo noi che ci stiamo annettendo i territori; sono loro che si stanno annettendo noi". C'è anche una terza ipotesi, rivoltante e altrettanto catastrofica: cacciare dai loro territori almeno un milione di palestinesi. Mi sembra che Israele sia pieno di persone sensate che vedono chiaramente la gravità estrema di questi scenari. Sono loro che ce li indicano. Ma al tempo stesso mi sembra ci siano molte persone insensate, a cominciare da Shamir, che faranno di tutto per proseguire in linea retta fin dentro il baratro. · Israele è sì un Paese minacciato, se non immediatamente, nel medio e lungo periodo. Ma neppure il criterio della sicurezza mi sembra valido per sostenere l'occupazione dei 11

DISCUSSIONE/LEVI DELLA TORRE territori e tanto meno la loro annessione. La solidarietà etnico/politica dei cittadini arabi di Israele con la popolazione dei territori ha fatto scricchiolare il compromesso etnico, ha fatto balenare un sintomo "libanese", una potenziale guerra civile se le tendenze politiche non avranno una svolta decisiva. I territori intesi come paraurto di fronte a un'eventuale aggressione dall'esterno, si sono dimostrati quali possibili fattori di disgregazione dall'interno. Né si tratta di scegliere se sia meglio una guerra civile che una guerra tra Stati: lo svilupparsi di una conflittualità etnica interna (tra arabi ed ebrei; tra islamici e cristiani, ed ebrei) non potrebbe che attirare una guerra dall'esterno, in un contesto internazionale sfavorevole alla parte strettamente ebraica di Israele, e agli ebrei in quanto tali. Infine, le tendenze ora operanti nella politica di Israele hanno incrinato il contesto dei suoi appoggi internazionali, e hanno indotto questo tormento, che viviamo, nei rapporti tra la "diaspora" e Israele: una tendenza di Israele a decadere almeno in parte come punto di riferimento per l'ebraismo, uno Stato-guida che minaccia di degenerare, un nazionalismo israeliano che si avvita su se stesso in cui gli ebrei delle diverse parti del mondo sapranno sempre meno rispecchiarsi. (Questi avvertimenti li lanciava Leibowitz già nel 1968.) Le responsabilità degli israeliani annessionisti e dell'opinione pubblica che li sorregge sono dunque gravi: verso la qualità ebraica e democratica di Israele; verso la sua sicurezza futura; verso i rapporti tra Israele e la "diaspora"; verso il popolo palestinese e il suo diritto all'autodeterminazione. Ti domandi: "Dove abbiamo una reale responsabilità, ossia una reale possibilità di scelta?". Qui, ad esempio, ne incontriamo una: dare appoggio e risonanza a quanti in Israele si battono nella coscienza della rottura dello "status quo", della gravità del momento e delle scelte, della necessità della svolta, ma non solo in difesa della virtù, ma della vita stessa di Israele; controbattere (col silenzio?) la collusione di fatto tra oltranzismo israeliano e giudeofobia. 2. Israele ha già pagato il prezzo dell'inerzia: l'euforia della guerra dei 6 giorni l'ha esposto impreparato all'aggressione della guerra di Kippur. Così, l'euforia della pace di Camp David l'ha indotto all'inerzia, alla coazione a ripetere, tentando e ritentando altri Camp David con qualche altro Stato arabo. Ma l'inerzia, le linee rette che si spezzano in crisi drammatiche e subìte (ora la rivolta dei territori, come già l'attacco del 1973)non sono solo dovute ad una normale debolezza umana, alla normale disposizione ad adagiarsi su qualche risultato raggiunto. Quell'inerzia, quell'affidarsi allo status quo, hanno, mi sembra, anche un'origine psicologica e ideologica: la difficoltà culturale a riconoscere la questione palestinese come una questione nazionale vera e propria, e a dare ad essa una giusta collocazione. · Ti domandi: "C'è, o c'è stata, una responsabilità, ossia una reale possibilità di scelta?". Io penso che su questo argomento ci sia o ci sia stata una responsabilità. La cultura 12 Soldati Israeliani in un quartiere arabo di Gerusalemme (foto di Richard Melloul/ Agenzia Grazia Neri) sionista, tanto di destra quanto di sinistra (laburista) mi sembra sia stata sempre restia a riconoscere nei palestinesi un'identità nazionale. Ha sempre preferito vedere i palestinesi come "arabi" della Palestina. "Fare la pace con gli arabi" era dunque l'obiettivo costante in cui era inscritto e subordinato l'accomodamento della "questione palestinese". Di conseguenza, la politica e la diplomazia israeliana hanno sempre cercato le vie per accordarsi con i paesi arabi scavalcando i palestinesi. I motivi di questo atteggiamento mi sembrano di tre ordini: psicologico, storico e politico. a) Quello psicologico consiste nella difficoltà di riconoscere che Israele, nascendo, ha contratto una colpa verso i palestinesi togliendo ad essi una terra. Quella "colpa sionista" è alla base del "mito di fondazione" dell'identità palestinese come nuova identità nazionale; mentre il "mito di fondazione" di Israele si basa sull'innocenza degli ebrei e sulla colpa altrui: nella sua funzione necessariamente apologetica, nella sua urgenza di legittimazione, resiste a riconoscere il suo versante di colpa. (Ma quanto più profonda è la Torà su questo genere di argomenti: l'identità Israel nasce in Giacobbe non nascondendo, ma anzi indicando la sua colpa necessaria verso Esau suo fratello.) Così Israele ama attribuire agli arabi, e non anche a se stesso, la responsabilità di risolvere la "questione palestinese". b) Il secondo ordine di motivi è di carattere storico: l'identità palestinese, in quanto identità nazionale, non è un dato originario, ma relativamente recente. L'antico slogan sionista sulla Palestina: "Una terra senza popolo per un popolo senza terra" poteva essere contestabile per il fatto che in Palestina esisteva una popolazione, ma forse rispecchiava una realtà più politica che demografica, per il fatto che non esisteva ancora un "popolo palestinese", un'identità distinta rispetto ad una più generica identità araba. Non basta il luogo per fare un popolo o una nazione. Come peraltro tutte le identità nazionali, quella palestinese si è formata nel corso e per effetto della storia e della sua violenza, attraverso l'attrito con il nuovo Stato di Israele da un lato e il rifiuto arabo verso Israele e verso gli stessi palestinesi come entità distinta dall'altro. L'identità nazionale palestinese prima non c'era e adesso c'è. (Così è per quella israeliana.) Ma l'impostazione tradizionale sionista ha avuto un'inerzia di fronte a questa mutazione, come affezionata al tempo della sua innocenza, quando i palestinesi potevano ancora essere visti solo come arabi di Palestina, il loro esilio come problema di profughi, la loro espressione politica nell'OLP solo come terrorismo arabo, e non anche come rappresentazione e rappresentatività nazionale. La cultura sionista "media" ha preferito non guardare in faccia una conseguenza della nascita della nuova nazione israeliana: la nascita per certi aspetti simmetrica di un'altra nazione nuova. Credo che i guasti di questa inerzia culturale e psicologica

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