Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

DISCUSSIONE/TURCHEffA Anche qui certo non manca l'esibizione di padronanza linguistico-strutturale, ma la Capriolo ha sicuramente un centro tematico, anzi piuttosto un'ossessione, che approfondisce via via, e alla quale dedica le sue forze con passione grande, ma ben contenuta entro una scrittura nitida e concisa. L'ossessione è il conflitto, tipicamente decadente (si pensi a Thomas Mann) fra vita e arte, o, più largamente, fra una dimensione affascinante e mobile, ma proprio per questo effimera e portatrice d'imperfezione e traumi, e una dimensione perfettamente armonica, forse eterna, oggetto di desiderio e soggetto di dannazione, nel momento in cui la sua perfezione fatalmente postula, con l'immobilità della bellezza assoluta, la morte. Sulla base di questo paradigma semantico polare, i racconti si configurano tutti come una sorta di braccio di ferro tra la vita-imperfezione e la perfezionemorte: dove questa seconda dimensione s'impadronisce della prima, e la condiziona per un poco, anche positivamente nella misura in cui dona sovrumane facoltà estetiche, la ingoia poi, conducendo alla morte. Per esser più precisi il secondo racconto ha un andamento opposto e complementare: l'arte insegue la vita, e non ce la fa; l'esito è però sempre quello di una non rimediabile lacerazione. La Capriolo, lo si è già detto, sa scrivere; ma d'altra parte la sua narrativa può attingere, al più, risultati di squisito e talora seducente epigonismo. Indipendentemente dall'intensità con cui essa le vive personalmente (ma la psicologia dell'autore riguarda solo molto relativamente la riuscita artistica), le sue metafore sono a tratti suggestive ma gelide, segnate da quello che chiamerei un disperazionismo di maniera, dove si ostentano (con vistose tensioni verso un sobrio neo-sublime) tragedie che non possono commuovere quasi nessuno, chiuse su se stesse. La Capriolo vuole, con ogni probabilità, dirci anche e proprio questo, cioè il suo dramma di scrittrice, l'isolamento quasi disperante (o altrimenti vacuamente compiaciuto) del suo sogno di bellezza: ma i suoi modi acriticamente démodés uccidono quanto ancora di vivo poteva restare (dopo un paio di secoli di logorio) in quel sentimento, e quel che ci arriva sono maschere composte, rigorose ma rigide, incapaci di mettere radici profonde in noi, e nella nostra realtà. Ritorno al reale Per quanto il fantastico non precluda certo il rapporto col reale (c'è molta più "realtà" in Kafka che in tanti romanzi cosiddetti "realisti"), è difficile non considerare la sua diffusione anche come un sintomo, come il segno di un rapporto problematico. La difficoltà di afferrare il reale è del resto spesso tematizzata dagli autori, ma con una forte tendenza da un lato allo smussamento dei contrasti, e dall'altro alla stereotipizzazione letteraria dello stesso distacco dal reale, che quasi fatalmente viene interpretato come segno di una condizione metafisica, atemporale. Questa propensione a proiettare le lacerazioni in una dimensione cosmica, siderale, e dunque insieme consolatoria e gratificante per chi la esprime in sentenze che si pretendono flagrantemente eterne e universali, è molto diffusa, e anche in autori che, lodevolmente, si propongono di riprovare 76 ad acchiappare almeno qualche pezzetto di realtà. Si potrebbe, per esempio, compilare una piccola antologia soltanto con le meditazioni, presenti negli esordienti qui considerati, sulla nullità del tempo, riflessioni di chiara derivazione borgesiana, ma di un borgesismo tanto di maniera da apparire d'accatto, e francamente irritante. Oggi come oggi Borges ha davvero l'aria di un cattivo maestro, a giudicare almeno dai compiti a casa dei suoi scolaretti; figurarsi poi l'effetto di scrittori che maestri non lo sono certo, -eche però fanno scuola e moda dilagante, come i cosiddetti "minimalisti", con il loro passo dimessamente realista. A essi si apparenta anche il trentenne Mario Fortunato, con i racconti di Luoghi naturali (Einaudi, pp.150, L. 10.000). Fortunato possiede una sicura dignità stilistica, tanto più sicura quanto meno ostentata, anzi quanto più quasi celata dietro una sobrietà estrema, forse estremistica, che non ha paura di confondersi col grigiore. Le sue storie sono storie di sofferenze comuni e laceranti, con una prevalenza netta delle figure di marginalità sociale: tossicomani, omosessuali maschi e femmine, ma anche carcerati, degenti in ospedale, internati in cliniche psichiatriche. Fortunato è ossessionato dall'immagine della reclusione, che segna anche la Capriolo, forse più suggestiva, ma meno dotata sul piano dello scavo e dell'approfondimento analitico. Fra gli ultimi esordienti forse Fortunato è il più sottile nel percepire la crisi di consistenza del reale e nel porla in relazione con una pratica della scrittura tutta riduttiva, poiché la si assume quasi esclusivamente come esorcismo contro il trauma, come terapia necessaria eppure non liberatoria, come diaframma opposto a una realtà desiderata ma soprattutto temuta: '.'sentivo", scrive il carcerato protagonista di un racconto, "nel meccanico ticchettio della mia macchina da scrivere qualcosa di chiuso, di carcerario appunto. L'infittirsi su ogni pagina di parole e segni aveva un che di claustrofobico. La sintassi degenerava inesorabilmente in una prigione ulteriore( ... ). E infine pensavo a una specie di vendetta che io compivo ai danni di un qualsiasi spazio aperto". La denuncia, o autodenuncia, è lucida ma, proprio perché così ferma, senza vie di scampo, segnala perentoriamente i meriti ma anche i severi limiti di questo autore: i Luoghi naturali sono tali solo per antifrasi, non tanto e non solo perché fatti dall'uomo e innaturalmente reclusori, ma soprattutto perché essenzialmente metaforici, immagini meno della realtà che di una scrittura consapevolmente dedita a descrivere la sua impossibilità di accedere agli spazi aperti, la sua inibizione ad essere altro che scrittura. È doloroso ammetterlo, ma sembra proprio che il massimo concesso alla gran parte della letteratura degli ultimi anni sia proprio questo: l'ammissione della propria marginalità È una consapevolezza importante, e probabilmente necessaria per mettere in atto un nuovo rapporto col mondo; ma dovrebbe essere solo un punto di partenza, poiché, se trasformata in obiettivo finale, condanna qualsiasi opera letteraria a chiudersi nell'arco di un'opera prima instancabilmente ripetuta, nella quale, con forza più o meno grande, si denuncia il proprio necessario fallimento.

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