vani" e dintorni, anche personaggi di più sicuro affidamento come Celati e Tabucchi sembrano in un momento non facile. Celati ha sostituito nell'ultimo libro il narrare con una filosofietta di seconda mano che davvero non gli fa onore. Quanto a Tabucchi, autore non solo dallo stile raffinato e consapevole, ma anche di non dubbio spessore problematico, da un po' di tempo sembra avviato a fare l'epigono di se stesso, estenuando una narrativa già per sua natura un po' esangue. Altri, davvero "giovani", come Palandri o Lodoli, hanno smentito le buone cose dei loro primi volumi con seconde prove al limite dell'autolesionismo intenzionale; mentre il tonfo della seconda e terza uscita di Pazzi a mio parere conferma soltanto la mal riposta presunzione della prima, ingiustamente sopravvalutata. Invece Van Straten, onesto ma dimesso, che sa toccare il reale ma ancora con troppo poca aggressività, avrebbe probabilmente bisogno di un po' di presunzione per mettersi davvero alla prova, e non restare un altro di cui dire: "non c'è male, ma forse può fare di più". Insomma, quando, proprio su "Linea d'ombra" (maggio 1986) Luca Clerici e Bruno Falcetto avevano severamente concluso il loro articolato intervento sulla nostra narrativa anni Ottanta parlando di "narratività di basso profilo dalle caratteristiche dimesse e appiattite'', così da provocare reazioni irate sugli scrittori interessati, avevano sostanzialmente colto nel segno. Anzi, in questi due anni il profilo della nostra narrativa si è abbassato ulteriormente, né gli esordi di cui mi accingo a parlare modificano di molto la situazione. Le vie del fantastico Un tentativo però dotato d'indubbia originalità è stato quello del non giovanissimo (classe 1947) Ermanno Cavazzoni, con Il poema dei lunatici (Bollati Boringhieri, pp. 299, L. 20.000), di cui ha parlato su queste stesse pagine Bruno Pischedda. Storia di una ricerca senza approdo né significato, almeno non dichiarato, il libro di Cavazzoni vive proprio dell'enigmaticità e dell'indeterminata suggestività di molti episodi. D'altra parte si ha anche spesso l'impressione che il delirio stenti a trovare coerenza di simbolo, e proliferi su se stesso per aggiunzioni un po' casuali. In questo modo Cavazzoni alterna invenzioni riuscite, come certe descrizioni di razze in. congrue e fantastiche, tra lo gnomesco e il gulliveriano, a momenti di stanca, come parecchi dei monologhi vagamente paranoidi del "prefetto". Sorprende che la critica, certo fuorviata dalla padanità dell'autore e del contesto rappresentato, oltre che dall'atipicità del libro, abbia attributo Il poema dei lunatici alla linea maccheronica, cioè comica ed espressionistica; ma Cavazzoni, pur avendo momenti umoristici, non è un comico, e i suoi antecedenti stanno fra certo racconto fantastico recente (Borges e Calvino, per esempio, dei quali condivide l'ossessione della classificazione e degli atlanti) e la tecnica propriamente surreale (e dunque tardosimbolista) della scrittura automatica. Il poema dei lunatici è insomma un libro sapientemente naiJ, sbilanciato ma interessante, anche perché dotato di una fisionomia tutta particolare, che è già qualcosa. DISCUSSION■nURCHEffA Si è visto però come anch'esso possa rientrare sotto la categoria, del resto molto comprensiva, della letteratura fantastica: ambito frequentatissimo negli ultimi anni, dagli autori editi ma anche dalle miriadi di scriventi letteratura inediti, fra i quali l'onirismo angoscioso post-post-post kafkiano oppure post-buzzatiano (magari destrutturato dalla lezione della "nuova poesia", cioè di un neo-surrealismo estremizzato) fa decisamente una parte da leone, e rischia di mettere in minoranza persino l'autobiografismo (più o meno incontrollato) e la più recente ma dilagante voga delle micro-tranches de vie di gusto minimalista. All'area del fantastico appartiene nel complesso anche Edoardo Albinati (nato nel 1956), i cui Arabeschi della vita morale (Longanesi, pp. 169, L. 18.000), per quanto tematicamente molto vari, sono in buona parte caratterizzati da eventi eccezionali e difficilmente spiegabili secondo i paradigmi del senso comune. Albinati possiede una tastiera linguista ed anche un repertorio narrativo di notevole ricchezza anche se non sempre padroneggiati perfettamente. Fatto sta che proprio la relativa indifferenza con cui sa passare dal fantastico bontempelliano di Il disguido che salva (dove le pazzie regolarmente ricorrenti ogni sei anni possono ricordare le morti similmente simmetriche, quinquennali, di Gente nel tempo) al fantastico manieristicamente ottocentesco di Le rose del deserto, all'angoscia politico-metafisica di Il presidente sconcertato (difficile non pensare al Re in ascolto dell'ultimissimo Calvino), al gioco virtuosistico delle focalizzazioni di Racconto scritto su una motocicletta e così via, questa indifferenza sembra conseguenza di un più profondo disinteresse per il senso di ciò che si narra. È difficile trovare in questo libro un centro morale e intellettuale ben individuato; o meglio, forse il centro c'è, ed è nel sentimento un po' desolante di delusione davanti a tutto, è nella domanda retorica "ma che cosa non è marginale nella nostra vita?" Domanda, è chiaro, la cui risposta necessariamente si ritorce sull'opera di chi l'ha formulata, di chi, pur assumendosene tutte le responsabilità, fa della sua letteratura un servizio sapientemente gratuito, oppure anche, e scusate l'apparente contraddizione, un sofferto "divertissement". Credo che qualcosa di simile volesse dire PampaIoni assumendo, con perentoria esattezza, la scrittura di Al binati sotto la categoria di "narcisismo": egli sembra infatti scrivere per scrivere, e basta; e per questo forse può fare racconti buoni, meno buoni, pessimi, ma, almeno per ora, mai ottimi. La gratuità, se consapevole, e tale mi pare in questo caso, può persino essere peccato veniale; qualche dubbio piuttosto viene dal titolo, inutilmente presuntuoso: perché infatti chiedere la legittimazione nientedimeno che alla "vita morale" per questi non ineleganti "arabeschi"? Certo più sofferto è il fantastico ultra-romantico, o piuttosto estremo-decadente, della molto giovane Paola Capriolo, autrice di La grande Eulalia (Feltrinelli, pp. 127, L. 16.000). Quattro racconti soltanto (contro la dozzina di Albinati), riducibili a tre se si pensa che l'ultimo, l'epistolare Lettere a Luisa, ri-racconta, cambiando il punto di vista, la vicenda del precedente, Il gigante, costruito invece su un diario. 75
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