Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

LONTANODAPRAGA INCONTROCONPAVELKONOUT a cura di Margherita Be/ardetti Prima di tutto uomo di teatro - come lui stesso si definisce in una conversazione con Siegfried Lenz risalente a qualche anno fa - Pavel Kohout non è solo scrittore di drammi e di commedie in bilico tra la farsa assurda e la tragedia, ma anche di romanzi e di libri per bambini. Nato a Praga nel 1928, vive dal '56 del suo lavoro di scrittore. Comunista convinto, partecipa con entusiasmo alla primavera di Praga e ne patisce poi sulla pelle, insieme a tutta una generazione che avevapuntato sul "socialismo dal volto umano", le conseguenze tragiche. Nel '69 viene espulso dal partito comunista. Le sue opere vengono colpite da divieto di pubblicazione e di rappresentazione. Otto anni più tardi è tra i fondatori e primi firmatari di Charta 77. Nel '78, insieme alla moglie Jelena, è a Vienna come consulente del Burgtheater, legato a un contratto annuale. Quando decide di tornare a Praga il suo soggiorno in patria dura solo otto ore. Al : confine, "in pdrte portato di peso, in parte spinto", viene ricaccia- . to su suolo austriaco. Immediatamente dopo, nell'ottobre del '79, le autorità cecoslovacche lo privano della cittadinanza. Il fatto ha subito un'ampia risonanza: protestano Bruno Kreiskj, associazioni culturali diverse, intellettuali come Grass, B611,Arrabal, "anche a nome di Jean-Pau/ Sartre". Kohout è autore di raccolte di poesie, di testi teatrali (Il buon canto, 1952, L'amore così, 1957, Addio tristezza, 1958, La guerra al terzo piano, 1970, Roulette, 1976, ecc. ecc.) e del Libro bianco, sulla primavera di Praga, del 1978. Il suo ultimo romanzo (Wo der Hund begraben liegt, A. Knaus Verlag, Munchen) è proprio la minuziosa ricostruzione degli anni praghesi seguiti al Sessantotto. Ha la fedeltà di un documentario, la scorrevolezza di un romanzo, a tratti la tensione di un giallo e anche un po' dell'ossessiva meticolosità di un documento "post mortem ". Vi compaiono personaggi della scenapolitica come S/dnskf, Dubcek, Husdk, artisti come Havel, K[(ma, Seifert, Kundera, Hrabal, attori, critici, appassionati d'arte e, onnipresenti, miriadi di poliziotti e agenti del servizio segreto. Per render la vita impossibile in patria a Pavel Kohout e alla moglie il regime architetta una sorta di rozzo giallo: lettere ricattatorie, minacce di morte, sabotaggi al motore dell'automobile, arresti, controlli tele/onici, pedinamenti, arrivando fino al gesto insensato e crudele di avvelenare il loro amato bassotto - il cane che dà il titolo al libro - nel giardino di casa. · Kohout come gli altri intellettuali fatti segno di simili persecuzioni quotidiane, oppone ai soprusi del "potere totalizzante" un 'arte raffinata di sopravvivenza, fatta di intelligenza,furbizia, senso dell- 'humor. Soprattutto non cessa mai di lottare - lo farà anche poi, nell' "esilio involontario" - appellandosi costantemente ai propri diritti, con puntigliosità e tenacia. Quando, nel '78, abbandonò Praga per Vienna, non immaginava neanche alla lontana che quel distacco-previsto per un anno - sarebbe durato fino a oggi. Di Pavel Kohout si possono leggerein italiano: La carnefice (Editori Riuniti, 1980) e, in coli. con V. Havel, La firma e l'attestato (CSEO, 1980). Mi ha affascinato leggere, nel suo romanzo-documento, la storia delle edizioni clandestine "Edice Petlice" (Lucchetto e chiavistello): nel '74, per in,iziativa di Ludv{k Vacul{k, gli intellettuali praghesi che, come Lei scrive, "erano più oppressi dal vuoto che dall'esistenza ... vuoto di lettori e di letture", si trovano a disposizione i testi letterari banditi dal regime in un 'accuratissima edizione. Battuti a macchina in 42 poche copie, che passano di mano in mano, provvisti di illustrazioni originali e della foto de/l'autore, si mantengono - in quanto "manoscritti" firmati e prodotti solo manualmente - nell'ambito della legalità, sfuggendo quindi ai sequestri. Lei ne scrive come di "uno choc ... da cui il potere ancora non si è ripreso". Perché tanta importanza allaparola scritta? Nella storia si presentano situazioni in cui la lingua diventa un'ancora di salvezza. Questo vale soprattutto per i piccoli popoli, come quello boemo: quando vengono sopraffatti da un nemico, che impone un'altra lingua e un'altra religione, subito si pone la questione della loro sopravvivenza. È lecito chiedersi: resterà traccia di questo popolo? Nella storia ceca c'è un esempio molto significativo di quanto dico, un esempio che può essere d'aiuto nella comprensione dei fatti più recenti. Quando la Boemia, dopo la sconfitta del 1620, fu. ricattolicizzata e rigermanizzata, anche la sua lingua e la sua religione - quella protestante - furono messe al bando. Le città divennero all'improvviso tedesche e chiunque aspirasse a diventar qualcuno doveva parlar tedesco e farsi cattolico. Ma in campagna, nei paesi, tutto ha un ritmo più lento. I contadini si muovono con una pigrizia che a volte ci può indispettire, ma che racchiude in sé un'incredibile tenacia e perseveranza. I contadini volevano conservare la loro vecchia fede, volevano restare protestanti e perciò la Bibbia ceca divenne di importanza fondamentale. Per una Bibbia - invisa al potere come oggi la letteratura underground - si veniva giustiziati, ma è stato proprio questo libro che ha conservato per 200 anni la lingua, fino all'avvento della rivoluzione industriale, quando i giovani contadini si mossero dai villaggi alle città in cui si parlava solo tedesco. Nel giro di 10 anni queste città tornarono ceche. Se si è a conoscenza di questa storia si capisce perché la parola scritta abbia un così grande valore nel subscosciente del popolo ceco e perché il potere, ancora oggi, tenda a sopravvalutarne gli effetti. A questo si aggiunge poi che la parola scritta, la letteratura, è sempre stata l'unica "tribuna" del popolo ceco, a cui è costantemente stato negato di articolare il proprio pensiero a livello politico: non si dimentichi che fino al '18 eravamo parte dell'impero austro-ungarico, poi, vent'anni dopo, del Reich tedesco e quindi siamo entrati nella sfera di influenza dell'Unione Sovietica. La letteratura, devo dire, ha a volte un destino paradossale: prospera nei tempi difficili e stenta in quelli buoni. Per esempio posso benissimo immaginarmi come, se tra qualche anno in Cecoslovacchia si respirerà un'aria diversa - ammesso che in Unione Sovietica le riforme abbiano successo e si propaghino anche da noi - esploda una tale febbre di beni di consumo e di informazioni che nessuno più avrà bisogno della letteratura. Oggi invece se ne ha veramente bisogno, un po' come nell'Europa del dopoguerra, quando, per controbilanciare gli orrori patiti, si aveva fame di nutrimento spirituale. Un paradosso del genere l'ho sperimentato io stesso nel famoso Sessantotto: è stato l'anno più a-culturale della mia vita. Contavano solo giornali e televisione: noi tutti passavamo ore e ore davanti allo scher-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==