Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

SAOGI/KOff si recarono a ritirare l'urna all'aeroporto. Anni dopo, uno di essi mi raccontò dei problemi che ebbero a trovare l'urna finché non spuntò fuori in un magazzino di pacchi non ritirati. Sulla scatola era stato scarabocchiato: "esente da dogana". L'urna era dentro. La presero e la portarono direttamente al cimitero tenendola sulle ginocchia perché in macchina stavano stretti. Così Stawar ebbe un Funerale di Stato completo, con tanto di banda militare in sfilata, vessilliferi, funzionari dello Stato e del Partito e sepoltura fra gli Emeriti. L'oratore principale presso la fossa fu Putrament. Parlò del fulgido esempio del compagno Stawar, scrittore marxista, fedele al Partito fino all'ultimo respiro. Molti scrittori vennero al funerale. Era un afoso giorno di agosto e grondavamo di sudore. Non era solo il calore estivo. M. si avvicinò e mi sussurrò all'orecchio: "Putrament ha rubato il suo corpo, ma Giedroyc ha la sua anima". Giedroyc era il direttore di "Kultura". Ne sapeva qualcosa Putrament? Noi sì. Tutto il funerale fu come un incubo dal quale non riuscivamo a svegliarci. Pochi mesi dopo la morte di Stawar, "Kultura" pubblicò i suoi "ultimi scritti". C'era dell'autocritica in essi, ma non del tipo che aveva richiesto Berman. Ne Il mio secolo Wat parla della lettera che Stawar gli scrisse poco pirma di morire: "Me ne sono andato dalla Polonia per pubblicare il mio libro". Ristampò alcuni degli articoli tratti da "Controcorrente", pubblicato clandestinamente dopo lo scioglimento del Partito comunista polacco nel 1938per ordine di Stalin. Stawar difese la tradizione di quel partito e "Controcorrente" (Pod Prad) fu accusato di essere il portavoce dei trotskisti. Dopo quasi un quarto di secolo questa testimonianza riappariva stampata su una pubblicazione di profughi politici, in linea con la.tradizione della dissidenza polacca che aveva già oltre un secolo di vita. Vidi per l'ultima volta Jerzy Stempowski, il maestro della mia gioventù, a Parigi nell'estate del '68. Mi parlò delle ultime ore di Stawar, sussurrando in modo quasi inintelligibile: era molto malato allora. Era andato a trovare Stawar quasi ogni giorno mentre era in ospedale a Parigi. La sua morte fu un'agonia prolungata. Dopo la fine, Stempowski rimise la dentiera in bocca a Stawar, rendendogli l'ultimo servizio. Questa immagine di un "calmo passante" che rimette la dentiera in bocca a un vecchio amico è degna di memoria nella storia amara e triste dell'emigrazione polacca. S i chiamava Szczesnycioè "Felice". Non male come pseudonimo donimo ai tempi dell'occupazione tedesca, salvo che era il suo vero nome. Il funerale di Szczesny Dobrowolski si svolse circa un mese dopo quello di Stawar. Doveva essere settembre e tornammo agli stessi lotti destinati agli Emeriti nella sezione militare di Powazki. C'erano i portabandiera e una guardia d'onore. Circa un anno e mezzo dopo la rivolta di Varsavia, io e Szczesny ci vedevamo un paio di volte alla settimana, sempre alle 11.45, in un edificio di via Zorawia presso l'officina di un vulcanizzatore. Il vulcanizzatore, un vecchio comunista, aveva fatto la sua parte per la causa e questo significava non solo il carcere, ma anche accuse e tradimenti subiti dagli amici più stretti. Aveva avuto la sua razione di brutti colpi e aveva giurato di farla finita con la militanza. Ma restava un simpatizzante e ci diede un posto per incontrarci e depositare parte degli stampati del bimensile "Giovane Democrazia" (Mloda Democracja), assieme a volantini e fogli clandestini vari. Eravamo una mezza dozzina in quella cellula dell'Esercito del popolo (AL): Leszek, che mi reclutò e fece da testimone al mio giu36 Foto di Mark E. Smlth/ Grazia Neri. ramento, Szczesny, che era il nostro responsabile politico, e Hedda, che all'inizio fu il collegamento fra me e Leszek. Gli occhi di Hedda erano enormi e blu; quando sollevava anche leggermente le sopracciglia, diventavano perfettamente rotondi. Szczesny, più grande di me di qualche anno, era alto, magro e un po' gobbo; camminava svelto e andava sempre di fretta. Non ce la facevo a stargli dietro: continuava a scrivere editoriali su quello che era a venire. Dopo la vittoria, è chiaro. Il vulcanizzatore mi prese a benvolere. Sembrava un uomo molto vecchio, ma non poteva avere più di cinquant'anni. Eppure era quasi zoppo e i suoi baffi erano irti di peli grigi. A volte restavamo da soli. "Con te riesco ancora a parlare, ma quell'altro, quello alto, è testardo come un mulo. 'Il futuro, il futuro ... ' Che se la veda da solo, il futuro; perché dovrei lavorare come uno schiavo per lui tutta la vita?" Nonostante questo, ci aiutava come poteva. Hedda Bartoszek era instancabile. Ognuno di noi aveva la sua vita al di là della cellula: studio, lavoro, famiglia. Hedda no: era sempre al lavoro dall'alba al coprifuoco. Portava con sé uno spazzolino da denti, un cambio di biancheria e una specie di impermeabile dentro una borsa a tracolla. Dormiva dove capitava. Suo marito era morto in combattimento nella primavera del '43, quando io conoscevo appena Hedda. Non parlava mai della morte di Bartoszek, né della sua vita privata. Non che ci fosse il tempo per le chiacchiere. Si andava sempre in perfetto orario alle riunioni, perché non si poteva mai sapere. Una volta, però, in settembre o in ottobre, arrivai con circa un quarto d'ora di ritardo; mi pare ci fosse stato un corto circuito sul tram che prendevo da Bielany. Era quasi mezzogiorno quando svoltai in via Zorawia. Una berlina nera di quelle che usava la Gestapo era ferma davanti alla casa. Passai rapidamente oltre l'ingresso ed attraversai la strada. Presi a camminare sul margine del rettangolo composto dalle quattro strade confinanti e poi tornai indietro verso la Zorawia. Dovevano avere preso Hedda. Di solito ci fermavamo dal vulcanizzatore per pochi minuti, al massimo cinque, per depositare un articolo, prendere un foglio. Se fossi arrivato in orario, forse avremmo fatto a tempo. Non furono i più bei momenti della mia vita. La Gestapo doveva avere preso Hedda perché io ero in ritardo. Mentre percorrevo il rettangolo per la seconda volta, Hedda sbucò fuori dal nulla e mi gettò le braccia al collo. Era molto pallida. Aveva percorso lo stesso rettangolo, ma dalla parte opposta. Era arrivata in officina con dieci minuti di anticipo e mi aveva aspettato fino alle 11,50. Poi, dato che aveva della "posta" urgente da smistare nelle vicinanze, era andata via. Tornata dieci minuti dopo, aveva visto la berlina nera parcheggiata di fronte alla casa. Era sicura che mi avessero preso per causa sua: se solo avesse aspettato per altri cinque minuti, aveva pensato, ci saremmo potuti salvare entrambi. Qualcuno aveva fatto una soffiata e la Gestapo era arrivata alle 11,55. Quella non fu né la prima né l'ultima volta che riuscimmo a scamparla per il rotto della cuffia. Non tutti ebbero la stessa fortuna. Il vulcanizzatore fu arrestato e ucciso o torturato a morte dalla Gestapo in via Szucha quella settimana. L'officina venne sigillata. Circa metà degli stampati e una pila di volantini erano stati lasciati all'interno. Non potevamo sopportare di perdere il materiale e denunciammo la cosa ai responsabili della sicurezza. Un paio di giorni dopo, due ragazzi della sezione di sabotaggio (frequentavano le lezioni di Stefan Zolkiewski sul marxismo) arrivarono in bicicletta, fecero irruzione nell'officina e la ripulirono fino all'ultimo pezzetto di carta. Uno dei due era Szczesny e fu così che venni a sapere che era in un'altra cellula clandestina. Hedda venne arrestata quasi cinque anni esatti dopo quel giorno

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