Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

ILCONTUTO TELEVISIONE DAPERRYMASON A UNGIORNOINPRETURA Oreste Pivetta In un'aula di tribunale sono capitato per caso tanti anni fa al fianco di Perry Mason, avvocato più che difensore, paterno e affabile, rassicurante e magari gratuito per buon cuore. Con lui s'andava sul sicuro. Accusato delle più gravi infamie, maltrattato, offeso e vilipeso, l'imputato saliva, sorriso dopo sorriso, agli onori del paradiso: assolto e ripagato per giunta dall'affetto e dalla comprensione di Perry, un padre. Il dibattimento processuale era ben sostenuto: ritmi rapidi, colpi di scena fulminanti, dialoghi precisi. La fine, si sa, era lieta in omaggio al sogno americano, dove deve trionfare Giustizia, che premia i buoni e i meritevoli. La società americana, per quanto marcia, corrotta e assassina si riserva sempre, in un angolino riposto, le forze sane che la riscattano. Nel recente Wal/ Street, filmone tradotto in un romanzo e piombato in piena crisi del mercato azionario, come fosse il rendiconto di una cattiva coscienza collettiva, sopravvivono sotto la carlinga di un aereo, maneggiando chiavi inglesi e bulloni: sindacalisti onesti che convincono lo yuppie di turno, figlio di uno dei due, a svelare la corruttela delle imponenti holding finanziarie (ma, attenzione, anche il padrone può essere buono: tanto per non indurre in tentazioni di classe). Perry Mason era meno ambizioso: in fondo le sue erano storie di gente normale, l'unico eccezionale era lui, sotto quella cravatta nascondeva Superman tutto cervello. A lungo quelli di Perry Mason sono stati i nostri unici processi televisivi. Poi i rubinetti si sono aperti. Perry Mason, per un anniversario, è stato riproposto in chiave antica e in chiave aggiornata, assicurando le emozioni (piccole)di vent'anni fa, legate per noi anime semplici alla certezza che, batti e ribatti, la Giustizia vince sempre, in barba ai raggiri e ai potenti, e che con la Giustizia vince la Ragione, anche se economicamente poco attrezzata. Soprattutto però il nuovo effluvio processuale si deve al gusto per la "cronacaverità". La telecamera è entrata a riprendere dal vivo arringhe, confessioni, interrogatori, parca in alcune occasioni, torrenziale in altre, occhio attento e vigile, pronta a registrare e a comunicare tutto: smorfie, pianti, lacrime, parole, espressioni, imprecazioni, rilevando segni insignificanti, messaggi ambigui, tacite connivenze, meglio del pub20 blico inquisitore. Ricorderò un processo, quello di Palermo, conclusosi con la condanna di un tot di mafiosi. Ma lì si era andati per stralci in una ricostruzione condotta dal giornalista Paolo Gambescia, ricostruzione che aveva raggiunto i suoi momenti emotivamente alti nelle deposizioni degli incriminati e nelle testimonianze di quelle persone che rappresentavano le vittime della mafia, madri, mogli, figli di morti ammazzati per mano mafiosa che dimenticavano tutto, perdevano la parola, la ritrovavano per pronunciare due monosillabi: "non so". Che dicevano comunque tanto sulla mafia, sulla violenza, sulla forza, sull'omertà, sul potere, ma che lasciavano per così dire in sospeso perché era facile accorgersi che non era il processo a svelare il meccanismo perverso, l'intreccio politica-economia-malavita, bensì quel che della mafia ciascuno aveva potuto apprendere per conto proprio e che nelle immagini poteva trovare mediata conferma: a saperla cercare, naturalmente, secondo una infinita varietà di valutazioni. Non so che cosa avrebbe capito Perry Mason, magari avrebbe pensato che fossero tutti ingenui e in buonafede. La telecamera non gli offriva altro: un accusatore che accusava, un imputato che negava, un testimone che dimenticava. Il processo s'è ripetuto poco tempo fa per un caso di stupro. Qui le parti erano presto delineate: da un lato la vittima, dall'altro i colpevoli, tre ragazzotti di una qualsiasi periferia, bravi ragazzi - piangeva mammà - figli di brava gente, che lavora sodo, chi in macelleria, chi per qualche altro traffico. Solo che i tre si erano fatti in una notte violenta violentatori colpevoli. Negavano ora, rispondendo .alle domande del magistrato con impacciate bugie, ma si mostravano per quel che veramente erano: tre imbecilli senza cultura, se non quella prodotta da una periferia romana che magari è meno povera e disastrata ed emarginata rispetto a quella dipinta da Pasolini, ed è invece più ricca, presuntuosa, rozza, volgare, sfacciata, ignorante, protagonista e vittima di un conformismo sociale fondato su un'etica maschilista. Solo che la telecamera di questa periferia ne mostrava ben poca: qualche faccia tra il pubblico. Se mai erano gli avvocati difensori a restituirci qualcosa di quella cultura. Ma non abbastanza, perché si sarebbe potuta aggiungere qualche riflessione sulla vita che ha prodotto quella violenza e quello stupro e quella stessa solidarietà che parenti e amici non hanno negato ai violentatori. Così la telecamera ha fissato a lungo il L'avvocato, visto da Nlcolas de Larmessln. volto dei tre, li ha bersagliati, ha denunciato la loro infamia, ma non è andata oltre una banale certificazione di imbecillità, che avrebbe tratto in inganno anche Perry Mason. Sarebbe stato meglio leggersi un libro. Ad esempio quello scritto da uno studioso americano, S. Brownmiller, pubblicato anche in Italia da Bompiani, Against our Will, che accertava negli Stati Uniti per il 1980ottantatremila casi di stupro denunciati e quattrocentomila sicuri. E basterebbe citare l'analisi conclusiva (l'affermazione di una subcultura della violenza, che appartiene raramente alle classi proletarie e contadine, e l'incidenza dello stupro prevalentemente in ceti borghesi o medioborghesi o in gruppi sociali che, per "omogeneizzazione", ne imitano i comportamenti) per capire che il "Processo" televisivo ha reso solo una parziale giustizia, condannando tre disgraziati, senza aggiungere molto alle cause del loro comportamento proponendolo come un caso individuale, loro, dei genitori, degli avvocati, dei fans ... Assolvendo un'altra volta la cultura, la società, i miti, la televisione stessa, eccetera, eccetera. La "cronaca-verità" è dimezzata. Di processo in processo siamo arrivati allo spettacolo, che si realizza per schemi facili, elementari e manichei, che soddisfano un gusto banale, allenato ai polpettoni, ai drammoni, alle luci blu o rosse, con ipocrisia e bassi sentimenti, senza neppure alludere a una analisi, conformista e conservatore perché la giustizia che trionfa non è quella assoluta di Perry Mason, ma sempre quella del Pubblico Ministero. Di processo in processo, siamo arrivati cioè all'ultima invenzione di "cronacaverità", Un giorno in pretura. Qui l'attenzione si lega alle vicende minime della vita e nel "minimo" riscontra il suo scopo, che consiste nell'identificazione tra osservatore e osservato e nella rivelazione della distinzione: "No, io come quello non sarò mai". Le storielle rappresentate, che dovrebbero

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