Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

IL CONTESTO Occorre affermarlo con chiarezza: i deboli, in letteratura, non meritano nessun interesse. Perché, deboli come sono, hanno l'ambizione di voler essere forti? Mai il grido: Guai ai vinti! è stato pronunciato più opportunamente. Nessuno obbliga un bravo ragazzo a scrivere; quando prende in mano una penna, egli accetta le conseguenze della lotta e tanto peggio se viene abbattuto al primo colpo e se un'intera generazione passa sul suo corpo. I lamenti, in casi simili, sono puerili e del resto non rimediano a nulla. Malgrado le protezioni, i deboli soccombono; i forti arrivano passando in mezzo agli ostacoli; questa è la morale della favola. So bene che, se si rimane in un ambito relativo, vi sono esempi di scrittori molto mediocri che le sovvenzioni e le protezioni hanno reso autori alla moda. Ma questo ragionamento è vergognoso. Perché mai la Francia dovrebbe aver bisogno di scrittori mediocri? Se si aiutano gli esordienti non è evidentemente che per la speranza di far emergere l'uomo di genio che può trovarsi fra loro. I libri e le opere teatrali non sono oggetti di uso corrente come, ad esempio, cappelli e scarpe. Un simile consumo, se si vuole, si verifica ampiamente nelle nostre librerie e nei nostri teatri; ma non si tratta d'altro che di opere inferiori, consumate immediatamente e destinate a soddisfare i nostri momentanei appetiti. Non voglio nemmeno prendere in considerazione la maggiore o minore mediocrità che si potrebbe pensare di conseguire in queste opere, se lo Stato intervenisse mettendole a concorso. Si apra allora immediatamente una classe nel nostro Conservatorio delle arti e dei mestieri, vi si insegni a costruire libri ed opere teatrali secondo la formula ritenuta perfetta, vi si producano ogni estate la quantità di commedie e di romanzi di cui Parigi ha bisogno per passare l'inverno. No, in tutto ciò solamente l'ingegno conta. Non vi è giustificazione 18 MUSICA all'incoraggiamento, se non è sottinteso che si cerca di far sì che si rivelino gli uomini dotati di grandi qualità che sono confusi e soffrono nella massa. Il problema, da questo momento, si semplifica. Si tratta solamente di lasciar che le cose procedano, poiché a nessuno si può dare talento; il talento porta con sé la forza necessaria al proprio completo sviluppo. ( ... ) Dunque, a mio parere, il problema dei giovani non esiste. E un luogo comune con cui si cullano le speranze fastidiose dei deboli. (traduzione di Ida Zaffagnim) da li romanzo sperimenta/e (1880; Pratiche 1980). SCAMPOLI Alessandro Baricco Vagolando fra le incisioni disponibili in Italia di JessyeNorman mi è occorso di riimbattermi nel Dido and Aeneas di Purcell. La sua sostanziale estraneità, molto inglese, per lo spirito più genuino del teatro in musica è resa palese dalla sua migliore qualità: la nobile stringatezza. L'Opera, nel suo intimo, è sempre gigantismo. È vita gonfiata. La musica allarga le magliedel teatro: spalanca i sentimenti, sforma l'accadere. È una grande lente deformante in cui, da sempre, piace al pubblico guardare il reale, sfigurato a epica leggenda. Dido and Aeneas, al contrario, sfoggia un respiro controllato, e un senso della misura che suona incomparabilmente nobile. Più che trasfigurare la narrazione, la musica sembra, semplicemente,condurla per mano: è come un delicato ausilio che smussa la fatica della memoria, chiamata a recuperare il passato remoto di una leggenda bella e triste. Niente a chevederecon l'Opera vera e propria. Un'altra, però, era la cosa che volevo dire: la bellezza del libretto. O meglio, di alcune sue schegge. La più visibile dimora nella pagina più nota dell'opera: l'aria finale di Didone, una specie di incantevole radura tanto bella da far pensare che tutto il resto dell' opera non sia altro che l'esatto sentiero tracciato per raggiungerla. Didone, abbandonata da Enea, si congeda dalla amica Belinda (e, insieme, dalla sua vita, dalla musica, dall'ascoltatore, da tutto). Per farlo usa una frase che sembra scritta con un compasso: Remember me, but ah! forget my fate. Ricordati di me, ma dimentica il mio destino. Ha la poetica essenzialità delle epigrafi tombali. Poco prima, a qualche passo dalla radura, più nascoste, ci sono due altre schegge che merita annotare. Enea ha appena comunicato il verdetto del fato che gli impone di partire. Didone, invece che piagnucolare, gli fa un cazziatone niente male. Lui, vero eroe, si rimangia tutto e decide di restare. Risposta di Didone: "No, uomo infedele, vattene per la tua strada". Con la seguente, acuminata, spiegazione: "Nessun pentimento ridesterà l'amore disprezzato di Didone: giacché questo mi basta: sapere che anche solo per un attimo hai pensato di lasciarmi!": battuta da tenersi buona per situazioni del genere. Ne raccoglie l'eco, poco dopo, il coro coniando una massima che, se non fosse troppo lunga, varrebbe la pena di ricamarsi sul cuscino: "Great minds against themselves conspire,land shun the cure they most desire". Gli animi nobili rovinano se stessi, e fuggono il rimedio che più di ogni altro desiderano. Tra le tante storie che il libro di Forsyth sulle sale musicali custodisce (Edifici per la musica, Zanichelli), ce n'è una che non c'entra niente, ma che resta nella memoria con la tecnica di cui solo sono capaci certi aneddoti da cui ci si aspetta una rivelazione e che pure restano muti e inossidabili a qualsiasi scasso dell'intelligenza: storie e basta. Successeche un giorno (ma era una notte, più probabilmente) Franz Joseph Haydn lasciò la sua dimora, che non si stenta a immaginare elegantema non lussuosa, per recarsi in quella, che non si stenta a immaginare né elegante né lussuosa, di un certo WilliamHerschel. Di costui si sa che suonava l'oboe nell'orchestra di Hannover. Ma non per questo passò alla storia. Infatti, dopo aver smesso di suonare l'oboe nell'orchestra di Hannover, egli fece ciò per cui, effettivamente, passò alla storia: scoperse Urano. Setacciò il firmamento fino a che non trovò Urano. In virtù di ciò (ma forse anche di una vecchia amicizia, non ricordo) Franz Joseph Haydn gli resevisitaun giorno (o notte) del 1792, cioè, per capirsi, un anno dopo la morte di Mozart. E questo successe:che Haydn mise il suo occhio nel telescopio di WilliamHerschel, e, miracolato dal gioco di mille lenti, il suo occhio vide Urano. Poi immagino che Haydn abbia fatto quattro chiacchiere,bevuto una birra, salutato, e via. Se ne tornò a casa. Ora io penso alla musica di Haydn, e penso a Urano. E mi chiedo come possa, l'una, essere sopravvissuta all'altro. Come si possa esseresalvato il geometrico esercizio della forma-sonata da quel presentimento di infinito che è il metter l'occhio in un telescopio.Perché, tornato a casa, Haydn non ripose la penna e la piantò per sempre di scriver note?

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