Linea d'ombra - anno VI - n. 27 - maggio 1988

naturalistica ai primordi del secolo, Norris, London, Dreiser, ma senza più la loro spregiudicata fiducia nello sviluppo comunque dell'individuo e della società come risultato finale di questa morale aggressiva. Non resta che una rapacità brutale e privatissima. Da contrapporre, la nuova coscienza radical di Stone non ha che la grigia moralità umanitaria-democratica della gente che "produce" e non specula, e gli stereotipi più vieti (il collasso del padre non metaforico Martin Sheen, il "sacrificio", il figliol prodigo affascinato dal male ma che, come in Platoon, lo "uccide", la delazione e la punizione del cattivo come in un vecchio film di denuncia, ecc.). Può apparire strana questa rozzezza in Stone, già sceneggiatore di tanti film importanti, ma c'è sottesa come una sfiducia nelle analisi e nelle narrazioni più sofisticate a favore di un impatto immediato, visivo, mitologizzante, un far più fortemente sentire, e anche un pragmatismo che è voglia di potere nell'industria. Dissolta la sua centralità, Hollywood ha disperso le sue produzioni in tutto il mondo: "il mondo come set" che è quasi il contrario dei vecchi principi del mondo in uno studio. Con Spielberg è giunta anche in Cina. L'impero del sole traspone il bel libro di J.G. Ballard, lucida commistione di autobiografia e fiction. Nell'enclave di Shanghai del '41, si compie il duplice sfaldarsi del mondo privilegiato delle concessioni europee e di quello interiore di un ragazzo, segnato da un'esperienza di violenza, di morte, di campo di concentramento. Un duplice percorso che riesce nella prima parte, mossa, di grandi movimenti corali (superbe sono alcune scene di folla: il crollo di un mondo come una festa interrotta; la disperazione formicolante dietro il lunotto della Packard; la guerra scoperta nel gioco, appena nascosta dietro un terrapieno; l'invasione dei giapponesi, la folla impazzita in fuga, con l'orrore che le marcia inesorabile alle spalle, a passo cadenzato, un ordine terribile per un attimo scompaginato dallo scontro a fuoco con i cecchini che dalle terrazze tentano una resistenza), assai meno nella seconda, sostanzialmente piatta, ché avrebbe richiesto una visione e una radicalità che ancora non sembrano appartenere a questo enfant prodige ora alle prese con i suoi film da "adulto". Lo sguardo di Spielberg trova la sua forza e il suo limite nell'identificarsi con quello del piccolo Jim (che non è più quello di Ballard, anche per colpa di una dispersiva sceneggiatura di Tom Stoppard). Gli permette un approccio insolito, dalla passione per ANTOLOGIA gli aerei che lo porta a esaltarsi per gli aviatori giapponesi, eleganti, eroici, a quel suo nevrotico arrendersi, a mani alzate, a tutti, comunque, amici e nemici, variante di una condizione di paura irrazionale che è sempre dei personaggi di Spielberg. Ma anche lo condanna a non vedere oltre. Lo sguardo dell'infanzia funziona da alibi. L'atomica come una grande luce in cielo, quasi un'illuminazione mistica, accompagnata da uno dei troppi cori infantili di chiesa. Di fronte alle esperienzedecisivedella nostra epoca, l'atomica e il lager, che hanno reso definitivamente precaria la condizione umana, Spielberg si rifiuta di fissare lo sguardo fino in fondo all'orrore, alla devastazione che produce anche in Jim che in Ballard sfiora l'odiosità e alla fine non è più un ragazzo ma un sopravvissuto. Laddove quello dello scrittore è tragico e partecipe sotto la freddezza clinica del tono, ché tanto è necessario a se stessi e alla verità, il suo occhio deve sempre, inutilmente, cercare un risvolto positivo, se non poetico (e in quello che lui considera uno stile "artistico"). Come se si arrestasse alle soglie di quella che il suo piccolo protagonista chiamaT"università della vita" (e della realtà e della storia). IL 11 PROBLEMDAEI GIOVANI" Émile Zola I nostri esordienti hanno delle esigenze, il che è spiegabilee perdonabile dal momento che la gioventù è portata per sua natura al godimento. Conosco molti giovani di venti anni che, alla seconda opera rifiutata dal direttore di un teatro, al terzo articolo che portano ai giornali senza che venga accettato, piangono sulla decadenza delle lettere e chiedono a gran voce di essere protetti. Ecco quello che i nostri giovani letterati sognano: un editore specialecon l'incarico di stampare e di lanciare tutte le opere prime che gli pervengono; un teatro che, grazie ad una forte sovvenzione, rappresenti tutte le commedie di esordienti inviate al direttore. A questo proposito si scatenano polemiche, si fa osservare che il governo elargiscemolto più denaro alla musica che alla letteratura, si parla dei pittori colmati di ordinazioni e di decor~oni, che vivono come bambini viziati sotto la tutela paterna dell'amministrazione. Prendiamo in esame dunque le aspirazioni dei giovani. ILCONTESTO L'idea di una generale opera di incoraggiamento fa sorridere. Vi sarà sempre una selezione; un comitato od un incaricato qualunque avrà sempre il compito di esaminare i manoscritti; e perciò s'imporrà di nuovo il regno dell'arbitrio ed i giovani rifiutati riprenderanno ad accusare lo Satto di non fare niente per loro, di soffocarli volontariamente. Del resto, non avranno torto: le sovvenzioni favoriscono in ogni caso i mediocri, mai si commissiona un lavoro ad un talento libero ed originale. Questo sistema di protezione non è tanto applicato ai libri; infatti, non esiste un editore che riceva cento o duecentomila franchi dallo Stato in cambio dell'impegno preso a suo nome di pubblicare entro l'anno dieci o quindici volumi di giovani autori. Ma in teatro la prova è stata fatta da molto tempo; ad esempio l'Odéon è aperto ai giovani autori che esordiscono con opere teatrali. Ebbene! vorrei che si facesse uno studio sugli autori di talento la cui prima opera sia stata rappresentata all'Odéon; sono sicuro che sono relativamente poco numerosi mentre la lista degli autori mediocri ed oggi già dimenticati deve essere enorme. E ciò soltanto per arrivare a questo assioma: la protezione in letteratura non serveche ai mediocri. Spesso giovani autori, soprattutto di teatro, mi hanno scritto: "Non credete dunque che vi siano dei talenti sconosciuti?". Certamente finché un talento non si rivela, non lo si può conoscere; ma io credo, ed è vero, che ogni talento dotato di qualche forza finisce col rivelarsi e con l'imporsi. Il problema è qui, e non altrove. Non si aiuta il genio a produrre: produce da solo. Faccio un esempio prendendolo nel campo della pittura. Ogni anno al Salone di pittura, che è un bazar della produzione artistica, si vedono quadri di allievi e studi di artisti mantenuti a spese dello Stato assolutamente insignificanti, esposti per incoraggiamento e per indulgenza; sono cose che non hanno peso, che non contano e che non potrebbero mai contare, che non hanno che il grande torto di occupare posti inutilmente. Perché mai fare in letteratura un'analoga esposizione di nullità, grazie a una sovvenzione? Lo Stato non deve niente ai giovani scrittori; non basta aver scritto alcune pagine per atteggiarsi a martiri, se nessuno le stampa o se nessuno le rappresenta; un calzolaio che ha fatto il suo primo paio di stivali, non costringe il governo a venderglieli. Il lavoratore deve lui stesso fare accettare il suo lavoro al pubblico. E se non ne ha la forza, non è nessuno, resta sconosciuto per colpa sua ed in modo del tutto giusto. 17

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