DISCUSSIONI/BlfflN picali (che rapprèsentano la nostra maggiore riserva di ossigeno); e più o meno 26 miliardi di tonnellate di humus, quel leggero strato di sostanza organica che rende fertili i terreni formatosi nel corso lentissimo delle ere geologiche. In compenso, ogni anno, si formano 6 milioni di ettari di nuovo deserto, mentre nell'atmosfera si addensano 5 mi- .liardi di tonnellate di carbonio che, combinate con gli effetti del disboscamento, diventano 7, più di 100 milioni di tonnellate di zolfo e decine di milioni di tonnellate di ossido di azoto. Sono alcuni dei dati relativi alle nostre "esagerazioni", contenuti in un testo che ha appena fatto molto scalpore, il Rapporto della Commissione Mondiale per l'ambiente e per lo sviluppo (pubblicato in Italia in due versioni: State of the world, Isedi, e Il futuro di noi tutti, Bompiani). La deforestazione, l'effetto serra, il buco nell'ozono, l'inaridimento dei suoli, insieme all'incontrollato incremento demografico e all'iniqua distribuzione di redditi e risorse, rappresentano i principali punti critici segnalati dal Rapporto, in una sorta di mappa deU'Apocalisse in atto. Il Rapporto è tutt'altro che il frutto di un gruppo di lavoro composto da Verdi fondamentalisti. È, anzi, discutibile infine proprio per una certa mancanza di radicalità, per la sua prudenza nel tirare le somme e le lezioni di tanto disastro. Tant'è che si schiera decisamente per un nuovo matrimonio tra industria e ambiente, sia pure pensando a quello che definisce "sviluppo sostenibile", un concetto che, in mancanza di precisazioni convincenti, sembra più rivelare una persistente fiducia illuministica, nelle magnifiche e progressive sorti della tecnologia e del capitale più intelligente. E tuttavia il Rapporto ha fatto centro, colpendo in profondità, a differenza di altre volte, e anche se solo temporaneamente, l'opinione pubblica internazionale. Certo, niente avviene per caso, e vi sono stati eventi che hanno predisposto a una maggiore ricettività verso questi temi perfino i più spensierati tra i terrestri, e basta forse citare solo Cernobyl. Così, ci troviamo ora alle prese con una specie di fine del mondo serpeggiante fra di noi, e su di noi incombente, proprio mentre pensavamo di esserci impadroniti di ogni lembo della terra, animali e piante e popoli "arretrati" compresi, posti a far da sfondo o da soggetto (nel migliore dei casi) nelle nostre diapositive. · L'albero e i suoi custodi "Tentiamo di proteggere l'albero, e dimentichiamo che è lui che protegge noi" ha scritto Carlos Drummond de Andrade nel suo Dizionario (cfr. "Linea d'Ombra" n. 24), cogliendo forse l'essenza autentica delle preoccupazioni "ecologiste" di tanta parte del mondo occidentale, impregnate di grandeur tuttora, ancorché un po' scosse dai piccoli e grandi disastri quotidiani. L'albero, cioè uno dei pochissimi veri custodi della vita sulla terra, specialmente laddove si concentra in grandi foreste. Insidiate in tutto il mondo O$gile foreste corrono gravi 8 pericoli. Non solo le piogge acide - pericolo attivo soprattutto nel Nord del mondo (il 22% delle foreste europee di conifere sono ammalate) - ma, di più, l'accelerato consumo per ragioni economiche le minaccia, così come la stessa minaccia - l'esaurimento, la consunzione - incombe sui terreni fertili del Sud. Da almeno quindici anni la spinta al consumo accelerato delle grandi risorse naturali dei paesi del sud del mondo proviene da un meccanismo perverso e micidiale che regola l'economia mondiale, e strangola questi paesi costringendoli a pagare interessi enormi e crescenti sui prestiti ottenuti da quelli più sviluppati allo scopo di finanziare la propria "crescita". In realtà, i debiti non hanno fatto altro che incatenare questi paesi alla dinamica selettiva e spietata dell'economia capitalistica, regolata da organismi come il Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, nonché dalle Banche e dai Governi delle aree forti del pianeta. In termini economici, i debiti inizialmente contratti dai Paesi in via di sviluppo sono, in realtà, già stati pagati (e forse più volte ormai), ma la spirale degli interessi (agganciata a clausole e procedure da usura) costringe a continue rinegoziazioni del debito. E i nuovi debiti sono contratti quasi esclusivamente per pagare gli interessi dei debiti precedenti, in una sorta di circolo vizioso che ne contiene, concentrico, un altro: lo sfruttamento intensivo delle risorse, da commercializzare a ritmi sempre più vertiginosi, e spesso a prezzi di rapina, imposti dal mercato internazionale. Così, i popoli che avevano sempre vissuto dei frutti dei maggiori serbatoi naturali di risorse, e li avevano custoditi e amministrati in cambio di questa "protezione'' (come la chiamerebbe Drummond de Andrade), sono oggi spinti a bruciare, letteralmente, questo patrimonio. E cosa potrebbero fare, del resto? L'alternativa è semplicemente quella di morire di fame, strangolati dalla miseria imposta dal Nord. Su questi temi si sono svolti di recente, a Milano e a Roma, due importanti convegni. Il primo, "Urihi - I custodi della terra", ha posto l'accento sulla condizione dei popoli nativi minacciati di estinzione in molte parti del pianeta, sul loro diritto alla cultura e alla vita (lanciando, tra l'altro, l'idea di una campagna finalizzata a contestare le celebrazioni del cinquecentenario imminente della conquista dell'America). Il secondo convegno, "Nord-Sud, Biosfera, Sopravvivenza dei popoli, Debito estero", proponeva un intreccio di tematiche, tutte, a loro modo cruciali e un incontro di soggetti: ecologisti, membri di organizzazioni non governative di solidarietà e di cooperazione internazionale, sindacalisti, volontariato. Il punto di partenza della riflessione proposto al convegno (e delle iniziative collegate) consiste nel riconoscimento del "comune debito ecologico" che unisce le popolazioni di ogni angolo del pianeta, e, da parte del Nord, della politica di sfruttamento e di rapina perpetrata ai danni del comune patrimonio naturale (della "Biosfera" in generale) e dei popoli del sud. n centro politico e concreto di questa proposta si situa, invece, proprio nel debito estero dei paesi poveri o in via di
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