NARRARE LA SCIENZ:A/OLSSON quantitativa e, più precisamente, alle critiche mosse alla geografia quantitativa. Lei proviene dalla geografia quantitativa, in un certo senso, il suo cammino anzi entra nella geografia quantitativa e poi ne esce. Come mai? Il motivo per cui vi entrai fu che quando iniziai da studente, essa si trovava al limite massimo del consentito. Ricordo molto bene i primi testi di geografia quantitativa che lessi, fu la prima volta che mi accorsi che non capivo assolutamente niente, e naturalmente in una situazione simile non si può far altro che cercare di imitare. Sono sicuro che quella sia stata la ragione per cui me ne occupai. A quell'epoca fu per motivi sociali e per motivi psicologici, per cercare di capire quello che non riuscivo a capire. Ho capito un'enorme quantità di cose dalla geografia quantitativa, in primo luogo perché essa ha la prerogativa di fare asserzioni che sono precise al massimo. Così si adotta una precisione di pensiero, si prende un fatto reale e lo si purifica il più possibile, si cerca in un certo senso di fare una copia meravigliosa del mondo, il che è poi come un'equazione. Per me tali equazioni erano quasi delle sculture. Non appena si entra in questo campo, ci sì rende conto che vi è naturalmente un alto prezzo da pagare per questa precisione, e cioè che -l'idea dominante consiste nello sforzarsi di estrarre dalla realtà e dai propri pensieri tutto quello che non è preciso, tutto quello che io definisco ambiguo. Vi sono molte ragioni di questo fatto, e si riferiscono in principal modo ai requisiti che bisogna pretendere da un linguaggio se si vogliono accumulare conoscenze, che è naturalmente sempre lo scopo della conoscenza scientifica: si vuole possedere la conoscenza per poter costruire l'intera struttura, in modo da poter insegnare veramente ai giovani qualcosa di più di quello che si sapeva prima di iniziare. Ma per fare questo bisogna, in un certo senso, trasformare la realtà, semplificare la realtà per farla rientrare in queste precise categorie del linguaggio. Mi sembra, e ne sono sempre più convinto, che si debba pagare un alto prezzo per questa purificazione e il prezzo che si paga per averla consiste nell'eliminare deliberatamente i malintesi e, ancora una volta, quelle che io chiamo ambiguità. Perciò esiste una sfida estrema, che consiste nel preservare i nuclei di cambiamento e creatività che si trovano sempre nelle affermazioni ambigue. Ciò significa che se si elimina questo si rendono incomprensibili, per esempio, cambiamento e creatività. A proposito di ambiguità, c'è qualcosa che dovrei chiarire. Quando parlo di ambiguità, non è perché voglia essere semplicistico e voglia far andare tutto bene. È esattamente l'opposto, perché la sfida qui consiste nell'essere tanto precisi che perfino quando il mondo cambia si mantiene la stessa precisione. Perché oggi leggiamo Omero, Shakespeare o Marx? A me sembra che lo facciamo non a causa delle idee che avevano e che cercarono di mettere nei loro scritti, ma li leggiamo e ne traiamo qualcosa perché sono riusciti a scrivere con un linguaggio che oggi è in grado di assumere nuovi significati in nuovi contesti. Quindi ovviamente non leggiamo Sha74 kespeare come Shakespeare stesso intendeva, né come i suoi contemporanei, ma lo leggiamo in modo che abbia senso per noi. Come ci riusciamo? Mi sembra che ci riusciamo perché nel suo linguaggio Shakespeare è riuscito a usare parole tanto precise da contenere questa possibilità di cambiamento,e per fare questo ci vuole un uomo estremamente abile e dotato di grande capacità artistica. Il che significa, naturalmente, che se questa è buona scienza, e io penso che lo sia, allora forse fare della buona scienza è meno di quanto non sia seguire i libri di testo sui procedimenti, ma il lavoro scientifico stesso diventa un'opera d'arte che dovrebbe essere giudicata forse più per le proprie qualità estetiche che non per il fatto che sia vero proprio in questo momento. Secondo me la geografia tradizionale o geografia umana è una geografia che si basa troppo sulle carte geografiche. William Bunge scrisse che una mappa è un tipo di sottoinsieme della matematica. Io penso che questa sia la base teorica della geografia quantitativa. Se questo è vero, secondo lei è possibile illustrare quanto ci ha detto sulla crisi della geografia quantitativa come la crisi di una geografia che dipende troppo da una falsa certezza della mappa? Io penso che sia vero ma è anche molto difficile. La mappa si trova ovviamente al centro della geografia tradizionale e in qualche modo è geografia, è il punto forte, ma anche quello debole della geografia e questo per molte ragioni. Una ragione è che, naturalmente, è molto difficile tracciare mappe di oggetti che non sono oggetti fisici, ma che possediamo in tutte le espressioni. Anche se non si volesse tracciare una mappa di un oggetto non fisico, basterebbe descriverlo per trasformarlo in un oggetto fisico. Quindi io penso che il problema principale della mappa sia che ci impedisce di diventare astratti. In un certo senso, una mappa ha una propria virtù comunicativa perché è concreta, ma ha anche degli svantaggi considerevoli proprio perché è concreta. Perché tracciare una mappa, tanto per cominciare? A volte lo facciamo semplicemente come abbiamo fatto sin dagli inizi, per trovare la strada, ma questo non è quello che fanno i geografi. I geografi rappresentano il mondo nel linguaggio della mappa. Ma, ovviamente, questo fa sorgere una domanda interessante: cosa significa questa rappresentazione? Perciò si ha un'immagine fisica e si cerca di interpretarla e di farlo in modo che abbia un senso. Per esempio, si cerca di capire come possa avere origine questo particolare modello spaziale che si ritrae nella mappa. Quindi, in questo senso, si continuano a fare domande di geografia storica, ci si chiede quali siano i processi che la creano. Ed è a questo punto che accadde qualcosa di molto, molto rivoluzionario, secondo me, nella geografia quantitativa intorno al 1968, quando cioè un piccolo gruppo di persone incominciò a interessarsi profondamente del classico problema geografico del rapporto tra forma e processo.'Nella mappa si ritrae logicamente la forma e lo si può fare molto bene. La domanda a questo punto è: quali deduzioni si possono trarre da quella
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