Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

ITORII/A■RIU rosso del pomodoro: sono seduto su pomodori schiacciati, ma non voglio pensarci, bisogna che l'autista non se ne accorga. A quel punto, per mascherare l'accaduto, dico all'autista che mi sento solo. Lui però non sente, e capisco che di questo· passo non vado lontano. Gli domando quindi se ha già letto Goethe, se ha già letto Werther. Lui domanda, cosa?, fingo comunque di non c;apire- estraggo di tasca un'edizione portoghese del 1916e dico che dovrebbe leggerla, lui· non sa cosa si perde, e apro a caso: Ella non vede, non sa che sta preparando un veleno che sarà mortale per entrambi. E io... bevo con avidità, con impazienza, la coppa fatale che ella mi porge. Cosa significa il tenero sguardo col quale ella talora mi contempla? Si chiama Lucia, spiego, abita nella casa accanto alla mia e ha l'abitudine di stare nel cielo con i diamanti. Ho tuttavia l'impressione di percepire un brillio assassino negli occhi che mi spiano nello specchietto retrovisore. Chiudo il libro, sorrido, un sorriso comprensivo, il mio, educato, discreto, tollerante - sì, io sono quasi sempre così, comprensivo, educato, discreto, tollerante. Accavallo le gambe, incrocio le braccia, so che occorre tentare nuovamente, imprigiono in tasca il tentacolo che insiste a sfuggirmi e dico cpe Cleopatra era soltanto una prostituta, così come due e due fanno cinque, la somma esatta del quadrato dei cateti, il binomio di Newton, più bello, dicono, della Venere di Mila, sebbene Angela Diniz sia stata la migliore allieva di Marcuse, per essere chiari, esattamente come quell'albero da frutto, l'umbu, nel patio della casa di mia nonna e, concludendo, per dire il vero, ebbene, non ho l'abitudine di essere sempre così... L'automobile si arresta e l'autista mi guarda: la sua faccia è un uovo morbido, rotondo, levigato e bianco, con un pugnale conficcato al centro. Gli sorrido, gli do un colpetto sulla spalla, come a dire capisco, non ho preconcetti. Pago e scendo ed entro in casa mia e corro verso il patio, mi siedo sulla sedia a dondolo e mi dispongo ad ascoltare la musica. Ma non c'è musica. Non c'è più biancheria stesa ad asciugare e non c'è più sole. Il sole è appena tramontato. La casa accanto è deserta. Guardo in direzione della finestra. La finestra ha le inferriate. Guardo oltre le inferriate dove stava la bimba dai seni nudi. Si chiama Lucia e, quel pomeriggio, sta nel cielo con i diamanti. Là non c'è nulla. Sul muro è seduto un nuovo con le gambe accavallate. Gli sorrido e dico: ciao Humpty-Dumpty! come sta Alice? Ma lui stende le gambe e si prepara a saltare. Vedo che mi cascherà addosso e corro in cucina. Attraverso la cucina, la sala, il corridoio, mi guardo alle spalle e noto che non mi segue, forse perché le mie vibrazioni a colori occupano completamente il passaggio dietro a me. La cucina, la sala e il corridoio sono pieni di io azzurri, rossi, gialli, violetti, io brillanti che scivolano e fluttuano e si fondono tra loro, per poi dispiegarsi in altri io ancora più colorati e più brillanti che scivolano e fluttuano. Mi piacerebbe rimanere a guardarli, ma mi rammento dell'uovo, spingo la porta del bagno, ap72 poggio il mio corpo alla sua superficie e questa si chiude su di me: e qui entra in azione lo zoom, la cinepresa mi si avvicina, e mi colpisce al naso, al naso che respira a fatica, i miei occhi annebbiati, una goccia di sudore mi cola dalla fronte, scende alle mani e si blocca per qualche istante, le mie mani contratte sul legno della porta. Tutto mi sembra così bello che voglio vedere il mio viso terrorizzato nello specchio: la goccia di sudore non è una goccia di sudore, è una goccia di sangue. Il mio naso che respira ·a fatica non è un naso che respira a fatica, è l'impugnatura di bronzo di un pugnale. E il mio viso terrorizzato non è un viso terrorizzato. È un uovo. Uscì dallo specchio e venne verso di me. Guardai altrove, mi morsi il labbro. Volli giocare assieme a lui, sorrisi perfino, gli domandai se voleva ascoltare una storia, feci fare un movimento al mio braccio, guarda come sono belle queste altre braccia colorate che il mio braccio va lasciando dietro di sé, guarda come sono evanescenti, non è bella questa parola? e-va-ne-scen-ti, guarda quali buffe smorfie so fare, guarda i miei io a colori che scivolano al di sotto della porta, ascolta la mia voce mentre dico tutte queste cose, senti come risuona cristallina lungo le piastrelle azzurre del bagno, non è interessante? cristallina, cresta, cristallo anche il suo guscio è di cristallo cristallino Krishnamurti, guarda quali folli relazioni so comporre, guarda come vibro, come vivo, come vedo: guarda. Ma non si muove. Sta fermo dinnanzi a me e si gira lentamente perché mi venga a trovare faccia a faccia con il pugnale conficcato nelle sue spalle. E allora credo di captare in lui una sorta di supplica: aiutami, risparmiami, finiscimi. Adesso è un uovo sottile, tenero, umile, e non mi fa paura, anzi mi fa pena, quasi tenerezza. A questo punto allungo le mie molteplici braccia e trovo l'impugnatura di bronzo del pugnale. Il suo guscio è macchiato da un rigo di sangue coagulato. Esito un attimo, ma chiudo gli occhi nell'istante in cui le mie dita si serrano intorno al pugnale. I miei occhi sono finestre, le mie palpebre inferriate, le mie mani tentacoli, le mie dita ferro. Una breve esitazione, spingo quindi pian piano, con decisione. E sento una lama che penetra profonda nelle mie spalle, fino alla pesante impugnatura di bronzo dove le dita spingono con forza, perdute tra le scapole. Lucia dà un urlo, ma è tardi. Vedo il mio guscio chiaro che si spezza completamente in tocchi brillanti che scintillano sul pavimento del bagno. Il sangue scorre e io, anch'io, ora sto nel cielo con i diamanti. (traduzione di Adelina Aletti) Copyright C.F. Abreu 1975

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==