Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

DISCUSSIONI/ISHAOHPOUR "Nel linguaggio, nei racconti, nelle superstizioni popolari Hediìyat ha cercato qualcosa di esistente, di ancora palpabile. Se ne è se,vito per trovare un mezzo satirico contro il popolo, le superstizioni, la religione, il potere politico, le istituzioni culturali e gli stessi modernisti." dayat riconosce il suo stesso volto. Ma l'Europa rinviava Hedayat, forte della sua cultura sulla Persia antica, a quell'"lran" degli Ariani pre-islamici, di prima dell'invasione araba, attribuendogli un'identità che supponeva autentica. Hedayat studiò le lingue antiche e scrisse sugli antichi Persi. Si voleva "iraniano", cioè indoeuropeo: partì dunque per l'India e per l'Europa, senza poter uscire dal vicolo cieco. Se l'Europa era quella di Kafka, le rovine della Persia avevano già prodotto molti secoli prima Omar Khayam. I saggi di Hedayat su Khayam e Kafka, i suoi due compagni e guide, l'orientale e l'occidentale, erano per lui un modo di spiegare ciò che avrebbe voluto essere. Amava le loro lingue concise e precise, la loro riduzione al niente e all'assurdo di tutte le credenze umane, ma non poteva arrivare né alla luminosa leggerezza dell'uno né alla profondità dell'altro. Era nato sotto un'altra costellazione, talmente nefasta da lasciargli poche possibilità, perfino come scrittore. Fino all'irùzio del XX secolo dominava nell'Iran la letteratura tradizionale: una poesia lirico-rrùstica, una prosa didattico-morale, svuotate bensì di ogni sostanza, sfigurate dagli ornamenti e dalla retorica degli "scribi" e dei poeti di corte. Come osserva Meskoob, l'ultimo principe dei poeti fu contemporaneo del primo poeta "modernista" dell'Iran. Questi, Nima, era influenzato dalla letteratura occidentale, perché la conoscenza di una lingua europea - in generale il francese - era per i nuovi letterati quasi un dovere. Così, attraverso la lingua, tra loro e il loro mondo si frapponeva un altro sguardo. Ma la poesia, la cui eredità era più ricca, rimase un campo privilegiato. Le trasformazioni esteriori ne tolsero la dimensione mistica e le forme poetiche antiche (i ritmi, le rime e le metafore canoniche) senza però toccarne del tutto la sensibilità e l'interiorità, e le sue immagini, il lirismo dell'amore, della natura, della solitudine. La poesia "moderna" dell'Iran è rimasta in gran parte ancora pre-baudelairiana. La prosa, nel senso di ciò che è "prosaico", borghese, disincantato, non aveva eredità da metamorfosare. Erano un mondo per metà trasformato e sfigurato e la tardiva introduzione della stampa tipografica, tecnica della prosa, alla fine del XIX secolo, ad esigerne la comparsa: occorrevano ora un nuovo sguardo e una nuova lingua. Non è stato Hedayat a creare questa prosa, ma ne è stato il punto di compimento. Si trattava di rompere con la tradizione letterata, già morta, ma in assenza di una vita nuova: l'agonia senza morte del sepolto vivo, è appunto questa. I vecchi contenuti venivano al massimo ridotti a stato di oggetti, avevano subito il processo del disincanto. Il vecchio rapporto che legava l'io al mondo e il sé a Dio era stato spezzato ma invece della nascita di un soggetto si assisteva alla sua assenza, una prigione, una solitudine, un dolore impotente esposto nella sua nudità, nella sua miseria, nella sua angoscia della morte e nel suo desiderio di farla finita. Un mondo pre-capitalista era stato sconvolto dal mercato mondiale senza che l'individuo, causa di sé, del capitalismo europeo di prima dell'era della sua "finitudine" e della sua morte, nel XX secolo, avesse potuto vedere la luce. Così l'assenza antica e la morte attuale del soggetto erano divenute una sola esperienza, e il "soggetto" non era altro che quest'essere miserabile, errante, un cane vagabondo espulso dal paradiso senza che avesse trovato una terra. Visto dall'interno di questa bara di vetro, il mondo appariva popolato di canaglie, di sciocchi, e di interiora e di genitali, di superstiziorù e di mascalzonate, di piccole menzogne e di piccoli delitti. Non esisteva nessuna mediazione tra il fuori e il dentro, l'io e gli altri, l'ideale e quel reale disilluso che nell'Europa borghese avevano dato vita alla forma romanzesca. E non c'era possibilità ditotalizzazione, bensì la deflagrazione di un cosmo in una molteplicità di zone eterogenee, o anche di piccole forme, di linguaggi dispersi. La scrittura di Hedayat è diversificata, e i suoi brevi racconti sono infatti di importanza e qualità diseguali. Contro la scrittura libresca, Hedayat ha voluto essere vicino al linguaggio della strada fino a spingersi a quello dei bassifondi, in un Iran ancora pre-moderno ma che il nuovo sguardo permetteva di vedere: mescolanza di proverbi, di insulti, di oscenità, di storia sacra, di superstizione, di incanaglimenti. È con una fascinazione impregnata di disgusto che Hedayat osserva, raccoglie e fissa sulla pagina per la prima volta questo mondo che aveva ancora una certa consistenza. Di qui la freschezza che questi testi hanno conservato, mentre l'urùverso piccolo-borghese - "moderno" - di certi altri racconti era, in se stesso, già troppo banale e privo di interesse. Hedayat non credeva più alla tradizione colta ma non era neanche populista. Nel linguaggio, nei racconti, nelle superstizioni popolari ha cercato qualcosa di esistente, di ancora palpabile. Se ne è servito per esprimere le sue scarse speranze politiche, rapidamente deluse, e soprattutto per trovare un mezzo satirico contro il popolo, le superstizioni, la religione, il potere politico, le istituzioni culturali e gli stessi "modernisti". I momenti più belli dei suoi testi sono quelli in cui due universi si incontrano, quando nello stesso tempo si mostrano qualcosa di un mondo diverso e lo sguardo moderno che lo oggettiva. Il "sepolto vivo" s'immaginava in contatto col mondo, e questo produceva i suoi racconti fantastici. Il più giustamente celebre, il più noto, il testo più lungo di Hedayat e il suo capolavoro è La civetta cieca. È il solo scritto della moderna letteratura iraniana che possa tener testa alle opere classiche della Persia, ma anche ai grandi libri della letteratura mondiale di questo secolo. È lì che il rapporto tra l'Oriente e l'Occidente - la visione e l'Immagine, lo sguardo e l'occhio - riesce a cristallizzarsi. La civetta cieca si presenta come un libro fantastico soltanto se si dimentica l'esistenza del mondo dell'Immagine in cui ha le sue radici per vedere soltanto "l'immaginario" nel quale si cala. Il libro è il cammino di questa inversione, l'introduzione dello sguardo oggettivante e di un naturalismo che metamorfosano il Sé visionario che accedeva al mondo dell'essere attraverso l'Immagine e l'amore, in uno scrittore moderno, in un vecchio rigattiere, in un Dio-demone ridicolo e sporco seduto davanti a cianfrusaglie vetuste e arrugginite che nessuno vuole. Un mondo misterioso in cui non si può più distinguere tra l'Universo visionario e le "visioni" allucinate di un fumatore d'oppio, là dove i due versanti orientale e occidentale - perché questo libro è influenzato anche dalla letteratura europea - si sono sovrapposti senza che la lacerazione più sanguinosa sia scomparsa o si sia cicatrizzata. È il cammino stesso del sepolto vivo nel rapporto coi suoi sogni, i suoi ricordi, e le sue visioni indistinte, con lo spazio divenuto fantastico, con le canaglie che lo attorniano, con la scrittura che lo tiene in vita, con l'oppio che lo consola e lo ispira. Due versiorù, l'una "immaginale" e l'altra "immaginaria" di uno stesso amore e dell'uccisione dell'Immagine di cui non restano che degli occhi. Queste pagine possono essere lette come variazioni su una sola immagine, i cui ossessivi ritorrù sotto forme molteplici creano un universo allucinante, etereo, pregnante e irrespirabile che è quello della stessa scrittura, come se essa non fosse che un'emanazione dell'immagine che adorna l'astuccio davanti a colui che scrive, e che lancia i suoi ultimi lamenti come la civetta cieca tra le rovine, perduto tra l'Immagine, l'occhio, l'ombra, lo specchio: senza più identità. 69

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