cioni. Certuni parlavano persiano, altri sbraitavano in turco, altri ancora lanciavano in arabo parole che, uscite dal fondo della gola, sembrava si disperdessero in aria e dovessero penetrare fin nelle viscere di chi le ascoltava. Donne arabe, le facce sporche e tatuate e gli sguardi infocati, esibivano anelli nelle narici traforate. Una di loro stava infilando la sua scura mammella in bocca a uno sporco bambino che teneva fra le braccia. Tutta questa gente cercava di attirare l'attenzione degli eventuali clienti coi mezzi più diversi: uno recitava elegie, un altro si batteva il petto in segno di mortificazione, un terzo vendeva sigillida preghiera, rosari e sudari benedetti, un quarto affermava di essere esorcista, un quinto scriveva preghie-"' re, altri' ancora offrivano in affitto le loro case. Ebrei dai lunghi caffetani già si offrivano come acquirenti dell'oro e dei gioielli dei viaggiatori. Di fronte a una casa da tè, un Arabo si infilava un dito nel naso, l'altra mano occupatissima nell'estrarre il sudiciume agglutinatosi tra le dita dei piedi: aveva il volto coperto di mosche, pulci correvano in libertà tra i suoi capelli. Quando la carovana si arrestò, Mashdi Ramezan Ali e Hosseyn Agha si precipitarono ad aiutare Galina Khanum e Aziz Agha a scendere-dal carro. E già la folla si buttava sui viaggiatori, in gara a chi sarebbe riuscito a impossessarsi dei bagagli, per poter più facilmente proporre la propria ospitalità. Nella confusione, scomparve Aziz Agha. La si cercò inutilmente e inutilmente si chiese in giro: fatica sprecata. Galina Khanum, Hosseyn Agha e Mashdi Ramezan Ali decisero infine di affittare una stanza in una casa di terra battuta perfettamente sporca, a sette rupie per notte. Poi ripresero la ricerca, ansiosi di ritrovare la scomparsa. Percorsero tutta la città, interrogarono, uno a uno, il guardiano delle scarpe e i devoti che recitavano preghiere di pellegrinaggio, e davano ogni volta nome e descrizione di Aziz Agha. Ma di lei, nessuna traccia. Cominciava a farsi tardi e la sacra cinta si era un po' svuotata. Per la nona volta, Galina Khanum entrò nel santuario: e fu allora che scorse un gruppo di donne e di mollah attorno a una figura femminile. Aggrappata al lucchetto del catafalco, costei lo baciava e gridava: - Ah! Adorato Imam Hosseyn, ascolta il mio lamento. Sopra la tomba ormai aperta, il giorno dei cinquantamila anni, quando tutti gli occhi ritorneranno nei crani, che sarà allora di me? Ascolta la mia angoscia. Penitenza! Penitenza! Sono pentita! Perdono! Si aveva un bel chiederle cosa le fosse accaduto, la donna non rispondeva. Finalmente, dopo molte insistenze, disse: - Ho commesso qualcosa, e tremo al pensiero che il Principe dei Martiri possa non perdonarmi. Ripeteva questa frase, e un torrente di lacrime le sgorgava dagli occhi. Galina Khanum aveva riconosciuto la voce di Aziz Agha. Si accostò, la prese per la mano, la trascinò nel cortile, e con l'aiuto di Hosseyn Agha, la guidò verso casa. L'attorniarono, allora, e quando ebbe bevuto due tè ben ffORII/HIDAYAT zuccherati e le ebbero preparato un narghilè, ella promise che, se Hosseyn Agha fosse uscito dalla stanza, avrebbe raccontato tutta la sua storia. Non appena il giovane fu uscito, prese il narghilè e cominciò così: G alina Khanum, mia cara, voi sapete che sin dal mio arrivo in casa di Gheda Ali - che Dio l'assolva dai suoi peccati! - abbiamo vissuto, io e lui, per tre anni di una tale felicità che una vicina non esitava a portare in esempio al marito la condotta del mio. Gheda Ali mi metteva al di sopra di tutto, mi adorava. Ma durante tutto quel periodo, per quanto facessi, non riuscii a rimanere incinta. E mio marito andava dicendo dovunque, con grande insistenza, di voler assolutamente un figlio. Ogni sera si sedeva vicino a me e ripeteva: "Il mio focolare si è spento! Cosa fare di fronte a una disgrazia così grande!" Mi feci visitare, presi medicine, comprai indulgenze. Non servirono a niente: nessun bambino era in vista. Una sera Gheda Ali scoppiò in singhiozzi di fronte a me e disse: "Se tu fossi d'accordo potrei prendere temporaneamente un'altra sposa, che farebbe i servizi di casa e, quando avrò avuto da lei un figlio, la ripudierei, in modo che tu possa allevare il bambino come tuo". Le sue parole mi ingannarono - che Dio voglia assolverlo! - erisposi: "Che male c'è in questo? Ecco che me ne incaricherò io stessa.'' "La mattina dopo, misi il chador e mi recai a chiedere in sposa per mio marito Khadidjeh figlia di Hassan, il fabbricante di yogurt, una donna tutta scura, brutta, la faccia butterata. Quando giunse da noi era povera e malaticcia e se per un solo secondo qualcuno le avesse stretto le narici con le dita, avrebbe subito n,so l'anima. Ero io dunque la padrona della casa: Khadidjeh s'accontentava di lavorare e preparare la minestra. Ebbene, signora, non era passato un mese che era già incinta! Le ossa le si erano rassodate e il ventre rafforzato, e fu di certo a quel punto che rimase incinta. Così, senza problemi, s'insediò nella casa, e mio marito non pensava ormai altro che a lei. Se, nel bel mezzo dell'inverno, le veniva voglia di mangiare delle visciole,Gheda Ali gliene portava a costo di andarle a cercare sotto le pietre ... "La fortuna mi aveva abbandonata ed ero molto infelice. Ogni sera, quando Gheda Ali rientrava in casa, portava nella camera di Khadidjeh regali avvolti in un fazzoletto, e a me toccavano solo le briciole. Khadidjeh, la figlia di Hassan il fabbricante di yogurt, che la sera del suo arrivo da noi aveva una scarpa che sbadigliava e l'altra che sbatteva, mi opprimeva adesso con tutto il suo disprezzo. Compresi allora quale grave errore avessi commesso. Per nove interi mesi, signora, io tacqui. E per conservare agli occhi dei vicini le guance colorite mi davo schiaffi sul volto. Durante la giornata, però, quando mio marito non era in casa, tormentavo Khadidjeh quanto potevo. Possa ella non ricordarne nulla nell'altro mondo! La calunniavo di fronte a mio marito dicendogli: "Alla soglia della vecchiaia, sei an65
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