DISCUSSIONE/GIACCHI PERLACRITICA, CONTROI CRITICI Piergiorgio Giacchè 'Dispiace doversi occupare di trasmissioni televisive. Non per snobismo ma per decenza, dal momento che sembrano diventate, negli ultimi tempi, l'oggetto privilegiato dell'attenzione e della riflessione di tutta la "grande" stampa. Le pagine di guida ai programmi, corredate di anticipazioni e di commenti, di punti di vista d'autore e statistiche giornaliere della audience, sono solo una parte dello spazio dedicato alla tivù: ormai le rubriche culturali di quotidiani e settimanali, anche quelle che ieri si spendevano per l'invenzione dei temi sociologici "emergenti", sono frequentemente impegnate dalle storie, dalle filosofie e dalle polemiche che gli uomini-spettacolo della televisione sembrano in grado - essi soli - di proporre. Così quegli stessi personaggi che fino a ieri si dovevano contentare del falso guardonismo dei rotocalchi da parrucchieria, oggi sono finalmente liberati dai pettegolezzi sulle loro presunte follie private, e possono librarsi con autorevolezza nella sfera pubblica. La loro abilità negli affari, la loro preparazione culturale, il loro orientamento politico ed etico, li rende oggetto di ammirazione letteralmente sconfinata. Gli arbore, i celentano, i pippobaudo - per fare d'ogni erba un fascio - non sono più gli idoli della massa: piuttosto sono i modelli più brillanti del manager e del professionista, e intanto sono gli esempi più riusciti e dunque più seguiti dell'uomo di cultura contemporaneo. "Il medium è il messaggio" non è più un'avvertenza epistemologica, ma un'evidenza teofanica: è "verbo incarnato", almeno da quando il medium si è accaparrato tutti i messaggi comprandosi tutti i messaggeri. Dentro quella stessa scatola il giornalista di rango o il sociologo di prestigio come lo scienziato di passaggio, non possono evitare il confronto con il presentatore o lo show-man di qualche minuto prima, di qualche canale in là. E nel confronto ci perdono senz'altro, dando oltrettutto la sensazione che si tratti di una giusta sconfitta, dell'instaurarsi di una più vera e accettabile classifica. È inutile affannarsi con i contenitori distinti e le fasce orarie distanti: gli stili "divano" o "paillettes" non bastano più a separare e magari a contrapporre divertimento e cultura, informazione e varietà, presentatori e commentatori, artisti e critici ... Ma non era poi questo il sogno di ciascun conduttore di programma, da Corrado a Costanzo, e, ieri, da Angelo Lombardi a Enzo Siciliano? Raggiunta questa liquida uniformità occuparsi di televisione non è soltanto un dispiacere, ma una seria difficoltà che converrebbe evitare, se non ci si riferisse ad un grumo improvviso, ad un incidente imprevisto. Un'eccezione che non conferma affatto la regola, ma che come sempre nulla può contro di essa. L'eccezione è capitata un lunedì di qualche tempo fa, 4 alla prima puntata del serial "Mixer Cultura", uno di quei programmi dalle pretese pepate, un po' salotto e un po' tribunale, del genere "tiro incrociato", "telefono giallo", "linea rovente", "giudizio d'iddio", che sono l'orgoglio della nuova linea rampante e tengono alto il vessillo della glasnost nostrana. Nella "poltrona scomoda" di Mixer Cultura, sotto lo sguardo corrusco di un conduttore barricato dietro un tavolo fatto di libri (e magari zeppato con legno), veniva fatto accomodare Carmelo Bene. E, mentre un tabellone elettronico da pizzeria gigante annunciava in termini pugilistici gli argomenti della contesa, si dava qualche minuto all'ospite per spiegarsi in attesa dello scontro. Bene riusciva ad introdurre appena la complessa e sacrosanta definizione di "scrittura scenica" e stava per rendere finalmente comprensibile al "grande" pubblico qualche distinguo, che gli avrebbe certo giovato in quest'epoca di abbonamento selvaggio al teatro di prosa, quando la necessità tutta televisiva di darsi dei ritmi nervosi, più il senso di imparzialità del suo inquisitore, lo interrompevano di colpo. ("Non vorrà mica fare il mattatore?" si rimproverava sveltamente all'ospite, pregandolo di sottostare al gioco dell'imputato). E venivano fatti entrare i leoni, cioè le bestie nere di ogni attore di teatro: a quei signori nulla sfugge, hanno da cessare le bravate, che solo le bravure passano l'esame! I Critici erano degnamente rappresentati in tutt'e tre le fondamentali sfumature. Dal Benpensante abbottonato che incarna la seria modestia dell'istituzione della critica teatrale con toni pacificati e didattici, all'Erudito espansivo e bonario, il grand gourmet un po' bollito e un po' unto per la vasta esperienza e per l'ingenua golosità, a un terzo - ritratto nel suo posto di lavoro - il tipo del Letterato-poeta che concede recensioni soltanto per il dovere civile di intrattenersi generosamente con il Sociale. Inutile ricordare a chi ha visto la trasmissione, e a chi non l'ha vista ma la può facilmente immaginare, come e quanto sia sceso il livello della disputa. Fra svarioni e cialtronate, appena frenate dall'intervento di due studiosi forse incaricati di avvertire i teleutenti di non credere completamente allo scherzo, i Critici si sono volontariamente dissacrati e, crescendo la foga e il disagio, hanno perso le staffe e la faccia. Com'era diversa, una settimana dopo, la puntata in cui si celebrava lo "scontro" fra Giorgio Bocca e i Politici! Quanta leggerezza nei disaccordi e quanti complimenti sottintesi! Ma evidentemente non si riesce a tenere a freno i Critici, una volta eccezionalmente esposti alla gloria della ribalta. Carmelo Bene ha provato a contrastarli: ha chiesto primi piani e campi lunghi, ha dimostrato e rimostrato invano. Il lato comico, e quello tragico (ahimè), continuavano a pendere tutti da una parte. (È stato facile il giorno dopo a Placido, commentatore dei commentatori televisivi, scegliere il campo del maggior merito teatrale!). Naturalmente però quello che ha reso eccezionale la trasmissione in questione non è stato il lato spettacolare che non può sorprendere più nessuno, ma la scelta del contenu-
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