Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

STORII/SCHIAVO di, e dagli occhi chiari, di una chiarezza franca e giovanile. Ci trattò come due piccole nobildonne. Quel premio ci aveva elevate: aver parlato della pace ci aveva poste in uno stato di grazia anche presso gli altri. CelesteNegarvillesi informò del nostro soggiorno a Firenze, volle sapere se avessimo già visitato la città. E alla nostra risposta affermativa, continuò con molta grazia, sempre chino verso di noi: "Avete visto gli affreschi del Beato Angelico nel Convento di San Marco?". "No," rispondemmo un poco imbarazzate, sentendo che per il nostro ospite sarebbe stata una grave mancanza. "Ah, dovete andarci assolutamente!" ci invitò con dolcezza, col solito garbo, "Sono le cose più belle di Firenze, queste cellette affrescate del Beato Angelico. lo ci torno ogni volta che posso!". Sentii l'atmosfera di pace perpetua che come un'ala d'angelo ci aveva di nuovo sfiorate, grazie a quelle parole che esprimevano un delicato sentire, e di cui mi meravigliavo perché era stato un uomo politico a pronunciarle. Ma sarebbe stata veramente perpetua quella pace? Kant aveva scritto un opuscolo sull'argomento. Come Kant, pensai in seguito, anche quelle persone sapevano che la pace non è un fatto naturale, ma che doveva essere umanamente creato, simile alle buone maniere del mondo, le quali tuttavia anche nel caso di Negarville apparivano purtroppo ancora solo uno squisito tratto individuale. E infatti la felicità in quell'assemblea era soprattutto la speranza, quella specie di lieve esaltazione di gente riunita che dava il vago senso della possibilità di una pace perpetua. Un giorno, forse. Il senatore e sua moglie continuarono ad essere i nostri numi tutelari, sempre con grande discrezione. Assistemmo attente ai vari interventi. Non so quanti Partigiani della Pace erano venuti da tutta l'Italia, forse da tutto il mondo: confondendosi, il mio ricordo diventa un poco megalomane. So che fummo chiamate anche noi a parlare al microfono. lo preparai un breve intervento, che non so più in che modo partiva dal libro di-E.M. Remarque Niente di nuovo sul fronte occidentale e dal film che ne era stato tratto, che mi aveva molto colpito. Ricordai, credo, le parole della contadina francese che dice ai tedeschi nella sua lingua "Ah, la guerre, quel malheur la guerre!". Era accanto a me e prese la parola Umberto Terracini, traendo spunto da quel mio ricordo, dal fatto che io, ragazza siciliana, ero giunta lì per parlare di pace. Mi colpì anche lui per l'estremo garbo, la voce pacata, per la faccia intelligente e sobria, che riusciva a far dimenticare lo strabismo che sempre se- ' mina ambiguità e dissimmetria in un volto. Anche Terracini si inchinò in quel modo squisito che doveva essere, secondo le mie ingenue supposizioni, il tratto distintivo dei seguaci della pace perpetua, che li faceva riconoscere come quello di una setta segreta. Ma in quell'eletta assemblea mi colpì anche che Piero Jahier, dalla bianca capigliatura, dal volto nobilissimo, mi colpì che lo scrittore Piero Jahier nòn dicesse nulla. Più riservato deì politici, vagava qua e là, come un'idea che cerchi la sua espres-·· 54 sione e non l'abbia ancora trovata. Al mio ritorno a Palermo le cose continuarono come prima. lo contTnuai la mia attività di collaboratrice accanto ali' Amica della Pace. Ma finito il liceo, come per incanto fini anche la mia collaborazione. Evidentemente esaurita. Quando ripenso a quel periodo, a quella mia insegnante, due cose mi colpiscono. La prima è che, andando a Firenze, imparai a distinguere le une dalle altre alcune passioni. Quella personale, dolcemente maniaca e solitaria, cui l'Amica della Pace si era data anima e corpo, mi fu più chiara e più cara, accanto alle passioni, che animavano quel convegno come un paradiso più complesso ma anche più rarefatto. Toccai concretamente lì la pace perpetua come progetto collettivo, qualcosa che si doveva ancora costruire, illuminato da individualità rette e appassionate. In loro la passione per la pace non era esclusiva come per la mia insegnante, ma era pur sempre ancora un tratto delicato del carattere, un tratto civile prima che politico. La pace perpetua era dunque ancora un sogno, un'utopia ... Infine distinsi, dopo di allora, la mia casta passione per la mia insegnante, che mi faceva andare innanzitutto verso l'esser donna: il principale motivo che mi legava a lei, prima di ogni altra ragione ideale. Questo, in seguito, continuò a guidare le mie scelte. Ricominciai ad occuparmi di politica solo molti anni dopo, negli anni Settanta, e solo nel movimento delle donne. Rimase tuttavia fortissima l'attrazione per quell'utopia: la pace perpetua che avevo intravista nell'assemblea fiorentina. Non dimenticai il tratto nobile, l'invito alla bellezza che ci aveva rivolto Celeste Negarville suggerendoci di visitare gli affreschi del Beato Angelico, e questo lo feci in solitudine. La mia riflessione solitaria mi fece scoprire come una costante, in una generazione che aveva vissuto la guerra ed i suoi orrori, la gentilezza. Ricordavo ancora un'altra figura di quella generazione: Adorno che viene a Palermo a parlarci di Beethoven (sempre la musica, ambiguamente messaggera di pace). Anche Adorno si inchinava come quei gentiluomini in completo grigio o blu del congresso di Firenze. Si inchinava lievemente davanti all'altro (una donna, il pubblico) come davanti all'idea di un'umanità che non c'era ancora. Erano tutti seguaci della pace perpetua, coloro che avevano vissuto gli anni dell'orrore. Eppure, anche Adorno, venendoci a parlare di Beethoven, di musica, insinuava un elemento di inquietudine, di sospetto e tremore in quell'idea di pace. Come la sua insegnante che in solitudine suonava i Notturni. · Di nuovo, apollineo e dionisiaco riapparivano, e l'inchino apollineo di Adorno era il gesto propiziatorio prima che l'altro aspetto più oscuro, potesse avere anch'esso il suo spazio. Giacché era sicuro che l'avrebbe, prima o poi, avuto. · Ma c'era anche in quel tratto civile, rassicurante, la certezza che l'oscurità era solo da attraversare. Mai da esaltare.

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