Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

PACEFIORENTINA Maria Schiavo Era l'anno millenovecentocinquantacinque, o forse cinquantasei. Avevo quindici o sedici anni. La guerra di cui si faceva ancora un gran parlare era in fondo per me simile a una divinità mostruosa ma sconosciuta, che solo nelle tracce che aveva lasciate dietro di sé mi mostrava tutta la sua potenza: palazzi sventrati, macerie dalla forma orribile che nessuno si curava di sgombrare. Non c'era in Sicilia un ricordo veramente spaventoso di quest'ultima guerra. In fondo, non avevamo subìto le prove peggiori, eppure si sentiva nell'aria l'oscuro terrore che quel mostro potesse tornare. Fu soprattutto al liceo che esso prese per me contorni più netti, più temibili. Lo sollecitarono i discorsi di un'insegnante di matematica e fisica che dedicava ormai tutta la sua vita a difendere la pace. Aveva all'incirca quarant'anni la mia insegnante. Gli occhiali, i capelli grigi raccolti dietro la nuca, il naso lievemente adunco, tutto aveva in lei un che di nobile e leggermente fuori dal tempo. Le lezioni di matematica e fisica, erano quasi inesistenti, nonostante le irruzioni di fuoco del preside, un mutilato della prima guerra mondiale, che agitava minacciose come un uncino le tre dita della mano destra rimastegli. Solo momentaneamente impaurita da quelle irruzioni, lei cercava come poteva di farci svolgere il programma, cosa che visibilmente non l'entusiasmava più. Solo un argomento era capace di accenderla, di trasformare, di rendere quasi bello il suo viso. Gli occhi, dai riflessi dorati, si illuminavano, la voce si faceva acuta e quasi infantile per l'entusiasmo quando parlava della pace. Portava sempre con sé documenti, bollettini; libri a favore del suo argomento preferito. O meglio: non argomento, ma causa. Perché quella donna perorava la causa della pace come si può perorare una causa religiosa. Il paradiso in terra. Pur dichiarandosi atea, anzi forse proprio perché non vedeva nessun orizzonte oltre la terra, era impaziente di evitare la catastrofe che i tempi della guerra fredda sembravano rendere così paurosamente credibile. Aveva costituito un comitato femminile per la pace che aveva sede in casa sua e di cui facevano parte donne del1'U. D. l., deputatesse, mogli di parlamentari, insegnanti. Ma il suo desiderio era che ne facessero parte anche le giovani, le studentesse. Intorno a lei, tra le allieve (allora le classi erano rigorosamente divise in maschili e femminili), tra i politici con cui lei era spesso in contatto, tra gli stessi suoi amici, c'era sempre qualche sorriso d'ironia. Io l'amavo molto, ammiravo il coraggio con cui sfidava ogni mattina il preside mutilato ·della prima guerra mondiale. Ma ciò non m'impediva di notare quei sorrisi ironici: una forma di oscuro scetticismo, qual- .che volta, me li faceva segretamente condividere. Quell'appassionata sostenitrice della pace si rendeva conto benissimo che a causa dei suoi discorsi infuocati gli avversari politici, quelli che la pace non la volevano, l'avrebbero accusata di follia. Ma lei li preveniva, ci rideva su per prima, riconosceva la sua debolezza dimostrando però subito dopo, con estrema tenacia, come quei pericoli di guerra fossero tutt'altro che fantasie. Il "Bulletin pour la Paix" (non ricordo più se il direttore fosse Jules Moch, o se egli presiedesse soltanto il Comitato Internazionale per la Pace), in bella carta velina, di colore bianco e azzurro, come la famosa colomba, circolava spesso nella classe. La nostra insegnante sapeva benissimo che le allieve facevano domande, più che per allontanare il pericolo di una guerra atomica, per allontanare quello, più immediato, di un'interrogazione di matematica o di fisica. Ma come Pascal, forse lei credeva che la fede viene a poco a poco, incominciando dai riti esteriori, come se già si credesse. Ed in un certo senso fu quello che capitò a me. All'inizio mi divertiva prendere la parola: le mie compagne mi incitavano sottovoce perché facessi le mie domande stornanti. A quanto pare, erano le più efficaci, quelle che innescavano discorsi piu lunghi, capaci di allontare il pericolo della lezione, che del resto la nostra insegnante si guardava bene dal fare. Così, giocando sulla nostra paura, sul poco gusto che avevamo per la matematica e la fisica, si inoltrava, non appena poteva, felice, in quell'altra materia, per lei la più importante: la salvezza dell'umanità. Per quel che mi riguarda, a poco a poco, a forza di far domande stornanti per evitare a me e alle altre le interrogazioni, mi ritrovai non so come dentro al Comitato. Divenni la piccola segretaria di quella appassionata sostenitrice della pace. Credo che solo chi l'ha vissuta in prima persona o chi ne ha udito parlare, rivivendola poi dentro di sé intensamente, possa capire l'atmosfera di quegli anni. Giacché, quello che faceva la mia insegnante, suscitando intorno a sé qualche sorriso, quella preoccupazione giudicata un po' monomaniaca, da donna nubile, era di fatto in quegli anni anche la preoccupazione di intelletti di prim'ordine. I Comitati per la Pace non erano, insomma, un'invenzione della mia insegnante. Che cosa rendeva allora la mia insegnante così coraggiosa ma anche così patetica ai miei occhi? Forse il sospetto che senza il tramite di quella passione nessun essere umano potesse entrare in comunicazione con lei, tranne qualche stretto familiare, che del resto io avevo solo raramente intravisto. Credo che, oltre alla pace, le sue passioni fossero due. Un nipote, che le somigliava un poco, dall'aria buona e pacifica, che ogni tanto andava a studiare con lei, alto e ben fatto, ....coi capelli dorati e certe mani grassottelle, bianche e sottili, che reggevano grossi libri di ingegneria. L'altra passione era il pianoforte. E tuttavia, come ho già detto, attratta dalla sua forza di persuasione, oltre che dal rituale che si svolgeva in classe, io ero diventata, quasi senza accorgermene, la sua piccola segretaria. Siccome non mi riusciva difficile scrivere qualche volantino, qualche documento, passai impercettibilmente dai riti esterni alla fede, come vuole Pascal. Ma la fede che nacque in me non fu propriamente politica. La pace come progetto politico mi appariva, tutta immersa nei giochi di potere 51

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