Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

RACCONTIDELLAMORTEGENTILE Rocco Brindisi Fette di melone A quei tempi la città era anche più brutta di adesso. Ma si pisciava, fischiando, nei portoni dei "signori", e non sempre a sfregio. Si faceva di tutto là dentro, anche l'amore naturalmente. Quei palazzi erano più funerei di una rosa. Là dentro, il gesto di aprire la porta a uno sconosciuto, si prendeva, da solo, un paio di eternità. E là attorno, d'estate, un mare di panni messi ad asciugare, nelle piazzette, nei vicoli. Alla controra coppie di bambini o di sposi divoravano fette di melone, con rossa tranquillità, sui davanzali. E c'era il rumore dei mattini, delle ossa amorose di Cristo, delle sedie portate fuori, dove le mamme piantavano bambini appena lavati, nudi. L'infanzia dei capelli bagnati, pettinati sulla soglia, sui balconcini. I bambini pisciavano nei vicoli con una calma celestiale. Sui fornelli bollivano siringhe, per malattie festose e per altre prive di sentimento. La madre di Mimmo Bellini morì a trentasei anni. Era davvero assai bella. Le piaceva scendere nel vicolo e chiacchierare con le amicqe (sempre molto più giovani di lei). Si spostavano da una porta all'altra seguendo i movimenti del sole. Quando lei si ammalò, vico Giordano Bruno si mise a lutto. Le madri chiedevano ai loro figli di non gridare ed esse stesse parlavano sottovoce. Una sera, Mimmo vide la madre vomitare sulle scale. La senti piangere, più tardi, come una bambina, dietro la porta. Non fini più di verniciare la sua bicicletta. Una volta che entrai in casa sua, correndo, per riprendermi una fionda che gli avevo prestato, ebbi il tempo di vedere la faccia della madre, per un attimo, dietro la tenda: stava in piedi, in sottana; la sua bellezza messa sotto i piedi. I poveri non traslocavano e non cambiavano mobilia: letti impregnati di giochi passavano, con un'indifferenza mortale, in mano al dolore e ai suoi scempi. Poi, diventava bella qualcun'altra. Le ragazze portavano i loro miseri specchi all'aperto, seguite, qualche volta, dalle madri o dalle sorelle maggiori che riprendevano a pettinarle alla luce. Uscivano bambine con grossi specchi tra le braccia (perché al buio gli specchi riflettevano il buio) che poggiavano su qualche gradino. Le ragazze più grandi avevano spesso l'aria distratta. Il loro pube s'intiepidiva al sole. Dalle finestrelle che spuntavano sulla strada, capitava di osservare coppie giovani o grigie rotolarsi in letti immensi, donne che baciavano ritratti di figli morti, di mariti scomparsi troppo presto. E c'erano ragazze, bianche nella memoria, che passavano in bicicletta nei pomeriggi deserti, senza ferire la luce e neanche le ombre. Le nuvole non ne sapevano nulla perché da sempre scivolavano sulle case, cieche. C'era una trasparenza tale nell'aria, da far tremare il cuore, fino al dolore a volte. I colori erano la negazione del sesso, che stava tutto nel grigio caldo, vagamente celestedel crepuscolo; nel bianco e nero del cinema. Il gelso Ci aveva chiamati Pentische a togliere le frasche a una montagna di granturco. Eravamo una decina di bambini. Ogni estate, agli inizi di settembre, scendevamo da San Michele per fare quel lavoro leggero e ben pagato. Il compenso, in natura, era il vecchio, enorme gelso piantato a un lato della casa e che prima del crepuscolo sarebbe diventato nostro. Alla controra stavamo tutti alla masseria, più nudi che altro: sandali e pagliaccetto; alcuni, scalzi e con le sole mutandine. Le teste, piene di capelli e leggere. Facemmo di corsa via Mazzini dove, qualche giorno prima, Michele Pagliaccie ci aveva inseguiti a cavallo per una mangiata di pere spadone. Prima d'infilare il sentiero dei biancospini, puntammo col dito il gelso-re affogato nella luce della campagna. I contadini sull'aia ci apparvero sospesi come angeli. Pentische era famoso per le sue schioppettate a sale e pepe e per quel gelso che ci sognavamo di spogliare, a cominciare da giugno. Davvero non c'era albero più terrestre di quello. La sua corteccia somigliava a certe grosse croste che ci tenevamo per giorni e giorni sulle braccia e che ci leccavamo ogni tanto, tranquillamente. I suoi frutti succosi e un po' agri gn' fasciénn' spantecà. Sotto San Michele, cùmma Giuvannina li vendeva a dieci lire il piattino. Sapeva tenerli all'ombra, e noi che passavamo nel sole, ci facevamo l'amore. S' gettava lu tuocche per vedere chi poteva bersi il succo rimasto sul fondo del piattino. Ma non ci saziavamo mai. Quel giorno trovammo una catasta di granoni ammucchiati sotto un ciliegio; ma c'era anche la zita, il gelso vestito a festa. Quell'anno il corredo di carne della sposa era davvero ricco. Cominciammo a strappare le foglie. Le avremmo sentite cantare nei materassi; le avrei rimestate qualche domenica mattina in compagnia di mia madre o di mia sorella Lucia. Venivano alla luce pannocchie bianche, viola, rosse... : chicchi durissimi che sembravano perle. Le bambine ci guardavano con un'ombra d'invidia perché potevamo starcene nudi come bestie. Ma si trattava di un'invidia gioiosa e certo non avrebbero scambiato la misteriosa bellezza che le teneva già in pugno con la nostra, cosi appariscente. Le donne sfogliavano il granturco con gesti rapidi e violenti. E ogni tanto, quando le foglie non se ne venivano, il loro petto sembrava gonfiarsi, e loro ridevano. Alla scurdàra gettavamo occhiate con il cuore alla Sposa che non si contentava di essere mangiata con gli occhi. 47

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