IL CONTUTO specifica il compito della riunificazione nazionale per tutti i tedeschi, è carica di ambiguità. Quale potrebbe essere dunque il fondamento politico-ideale di una "nuova identità" tedesca, da un punto di vista di sinistra, se si considera che la costituzione provvisoria di una repubblica fondata a tempo determinante (ma le specificazioni di tempo mancano), non è neppure fondata su una reale coscienza antifascista di massa? Il cemento ideale che legittimò e giustificò agli occhi di milioni di tedeschi a occidente dell'Elba la fondazione di uno stato separato, non fu l'antifascismo, fu invece l'anticomunismo. Era l'anticomunismo l'elemento di continuità ideale tra Weimar e Bonn - e l'ideologia atlantica che ne seguì non era poi tanto lontana dalle strategie occidentali antisovietiche del passato. Hitler, abusando dello zelo tedesco, aveva solo esagerato. Se Adenat'ler, negli anni Cinquanta, poteva apertamente parlare della necessità di "cacciare il comunismo dal cuore dell'Europa", perché i tedeschi avrebbero dovuto sentirsi in colpa per la loro recente crociata a oriente? L'ammissione ufficiale di colpa si limitò infatti al genocidio del popolo ebreo (si ricordino in proposito le più che imbarazzanti discussioni parlamentari sulla cosiddetta Wiedergutmachung, eufemismo che indica la "riparazione", il "risarcimento" pagato allo Stato di Israele ... ). I crimini perpetrati nei confronti di altri popoli, nei confronti della stessa opposizione tedesca, non entrarono mai nella coscienza collettiva tedesca, fino a oggi. La generazione politicamente responsabile del Terzo Reich trovò rifugio in quella "rimozione" del passato che fu favorita da tutta una serie di misure "fatali", nei loro esiti concreti, come la "denazificazione" operata dagli americani, e dal reinserimento, subito dopo, delle élites e degli "specialisti" del Terzo Reich nell'amministrazione pubblica, nella magistratura, nel sistema scolastico: il che permise la strumentalizzazione della RFT quale baluardo del mondo libero contro il comunismo. La teoria del totalitarismo, che ha così profondamente segnato la coscienza collettiva delle generazioni che beneficiarono della "grazia della nascita posteriore" (H. Kohl), permise poi quel : singolare meccanismo di chiusura nei confronti sia del passato nazista, sia del presente "comunista" dell'altro stato tedesco. "Il popolo tedesco è senza colpa. Senza conoscenza dei gravi crimini di cui siamo venuti a conoscenza oggi, il popolo ha condotto una lotta per l'esistenza che si è scatenata 32 DAI LETTORI senza la sua volontà fino alla morte, con fedeltà, valore e spirito di sacrificio" (H. Goering davanti al tribunale di Norimberga, cit. da D. Irving, Goering, 1978, p. 745). Questa è la formulazione estrema di una sensazione ancora oggi diffusa nella RFT - nonostante gli studi e i risultati della ricerca storica di centro, di destra e di sinistra. Quando lo stesso Habermas indica nel- !' "apertura incondizionata della RFT alla cultura politica dell'occidente" un merito di cui la sua generazione dovrebbe vantarsi, non solo, come scrive Tiircke, egli "si stacca dalla concezione materialistica della storia", ma dalla stessa realtà dei fatti. Il ruolo che toccò ai tedeschi nell'accettazione passiva della divisione del loro territorio nazionale, fu tutt'altro che glorioso o adatto a costituire la base per una autonoma identità politica positiva. (Va pure ricordato che la sola forza politica che vi si oppose fu il partito comunista tedesco). La svolta occidentale, europea, atlantica ebbe un prezzo non trascurabile: quello dell'uscita dalla propria storia, e la rinuncia a costruire un'identità democratica collettiva. Il dilemma della sinistra tedesca sta anche qui, e l'assenso della socialdemocrazia di Schumacher fu determinante per quella svolta. LAPERIFERIAESISTE Lorenzo Guadagnucci (Pescia} Esiste ancora una periferia: una condizione vissuta, esistenziale e quotidiana, di non centralità. La sociologia sempre meno se ne occupa, essendo ormai tramontata l'epoca del vivo interesse per le relazioni fra città e campagna. I sommovimenti sociali più intensi, i travasi di popolazione dal mondo rurale all'universo industriale e cittadino appartengono ormai al passato. La Tv, poi, da tempo svolge una funzione acculturante che diffonde in ogni angolo della penisola i valori, la cultura e le immagini della dimensione urbana e post industriale del vivere contemporaneo. Tuttavia una periferia esiste. La Terza Ondata (cfr. A. Toffler), i mass media, la società della comunicazione sono realtà presenti, vivaci e certo' dominanti. Ma c'è da chiedersi fin dove arrivi questa valanga, se le cittadine e i paesi davvero assorbano nel loro vivere quotidiano i criteri e le direttrici che la cittadella metropolitana dei mass media suggerisce. Si ha la sensazione che non sia così. Ma il discorso da fare sarebbe troppo lungo. Piuttosto si può brevemente parlare di un Convegno, sfuggito senz'altro all'attenzione della grande informazione e probabilmente anche ali' occhio vigile (?) dell'intellettuale urbanizzato e metropolitano-centrico. Questo Convegno si è svolto in luogo periferico, nel contado di una città mediogrande (Firenze). Nell'autunno dell'87, per due giorni, il Palazzo comunale di Scarperia ha ospitato noti personaggi del mondo letterario. Bo, Luzi, Macrì, Parronchi, fra gli altri, sono intervenuti per parlare di uno scrittore, anch'egli periferico, come il suo paese natale (Scarperia, appunto). Nicola Lisi (1893-1975) è stato uno scrittore organico (nel senso gramsciano) rispetto alla condizione non-urbana, periferica, campagnola, del vivere moderno. Lisi era anche uno scrittore cattolico un po' visionario, che si cullava nel poema incantato del suo stesso animo, vagheggiando un cattolicesimo placido, puro ed irreale. Soprattutto per questa singolare "ideologia" viene ricordato; per quel suo Diario di un parroco di campagna così lontano dal descrivere credibilmente quale fosse il senso della presenza ecclesiastica nel mondo contadino. Non lo si considera invece per la sua vantata perifericità. C'è del rimosso nella riflessione più recente sulla cultura e la società del nostro Paese: nessuno si domanda come ai margini della Seconda e della Terza Ondata vengono metabolizzati gli stimoli e le pressioni che dal centro del sistema provengono. Per conto suo, Lisi ci ha fatto capire, attraverso quel mondo evanescente, umile e ingenuo, scenario dei suoi racconti, che il movimento sociale e le correnti della cultura marciano sfrangiandosi a ogni pie' sospinto. Che una periferia esiste. Ma chi è davvero disposto ad ascoltare questo negletto messaggio? Chi vuole porsi il problema e provare a pensare e affermare (contraddicendo in questo le posizioni conservatrici di N. Lisi) che periferia non corrisponde ad arretratezza? Eppure le culture locali esistono, vivono, prosperano (le "piccole patrie" di Pasolini), e ospitano spesso germi di progressione sorprendenti. Misconosciuta ma presente, sfaccettata e anche vivace, la periferia sociale e culturale esiste eccome.
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