Linea d'ombra - anno VI - n. 26 - aprile 1988

di esordi di quest'anno, fenomeno su cui varrà la pena tornare, l'altro merito di "Filmaker" è quello di preferire al lamento l'intervento, cioè di produrre in proprio. Quest'anno, cinque mediometraggi di mezz'ora, sulla base di storie originali di "giovani" scrittori. L'incontro con la letteratura non è stato molto fecondo, forse perché poche di quelle storie fornivano spunti originali, forse per un difetto d'impostazione che poneva il filmaker di fronte a testi già elaborati, costringendoli quasi a un lavoro "su commissione" che è altra cosa da uno scambio attivo di esperienze.Così, non per rifiuto delle "storie" ma perché quelle non erano anche storie loro, i racconti di Pascutto, Panebarco, Tondelli, Manfredi, Lodoli, sono stati usati come marginalissimi pretesti, stravolti, riportati senza lasciare vera traccia al mondo personale di ciascun regista. Non a caso, qui si tratta di un cinema che si vuole d'autore, che lavora sulla differenza. E, in certi casi, ne ha solo le velleità. C'è poco da dire sul disastroso La vita nuova di Francesco Dal Bosco, che sguazza tra autenticità esistenziali e incubi pubblicitari (da esorcizzare) con un moralismo da "Comunione e Liberazione" e un poeticismo da spot, e anche di La metamorfosi dei Giovanotti Mondani Meccanici, piatto e a tratti confuso rovesciamento del racconto kafkiano per cui la rovina, il male è oggi l'incapacità a diventare davvero un insetto, un mostro, a fare spettacolo. Una trovata, un po' di deformazione elettronica dei suoni e delle immagini, un po' di fumoso grottesco di costume. Nessun vero sviluppo. Divertente e fin troppo applaudito, My sweet camera di Ranucciò Sodi è espressione di quel "cinema di attori" che, dopo Kamikazen, sembra prendere piede in area milanese. Cioè, un cinema più recitato, messo in scena (ma stranamente, il film è girato in video, a bassa definizione). Incentrato su una figura ormai insopportabile, il cinéphile e il suo rapporto maniacale e maldestro con la cinepresa (con, a far corona, le "Brigate Rossellini" di Ghezzi e Tatti Sanguineti, narcisi come sempre), è salvato, anzi esaltato, dalla verve, beffarda di Paolo Rossi, "dropout metropolitano" di una complicità contagiosa e compiaciuta, ma ne è anche prevaricato in gran parte delle sue intenzioni autoironiche, di riflessione su una generazione che aveva cominciato con il cinema militante. Restano i due film più riusciti: Viva gli sposi di Gianluca Di Re e La variabile Felsen di Paolo Rosa. Quello di Di Re è forse il lavoro più fedele, non negli sviluppi narCONFRONTI rativi, ma nella sostanza, allo scrittore da cui ha preso le mosse, Marco Lodoli. Cioè, la letterarietà come oggetto primario, l'arte del raccontare. Un lungo viaggio di nozze in auto da noleggio, da Milano a Venezia. Due sposini, un autista compito e ambiguo. Lunghi dialoghi, precisi, sciolti. Digressioni e incidenti di percorso. Sottili tensioni. Un intenso bianco e nero, tempi giusti, Di Re ha girato un bel racconto breve, un po' nei modi della Nouvelle Vague. Che lascia un vago senso di inquietudine. Paolo Rosa, infine non a caso il cineasta che più ha compiuto esperienzenella "cosa telematica", che più attraversa nella pratica dello Studio Azzurro le tecniche del video, tra ricerca di laboratorio, videoinstallazioni, interventi in spettacoli teatrali, è anche quello che meno concede ai nuovi miti di nullificazione di ogni significato. Indaga un suo spazio dicoscienza tra individui quotidiani, urbani, perduti nel vuoto di solitudini e di ossessioni, e ansia di intervenire nel reale, nell'ordine del caos, che alla fine si rive.leràautodistruttiva per il grigio singleCochi. Pur meno denso e culturalmente stratificato del precedente L'osservatorio nucleare del dottor Nano/, resta uno dei pochi esempi in cui una scrittura - rigorosa nell'uso attivo degli spazi come l'appartamento vuoto di Cochi, tendenzialmente astratta, geometrica nello studio dei ritmi del traffico, della successione ripetitiva ·dei passaggi a un incrocio, su cui un piccolo spostamento può provocare effetti deflagranti - tenta di più di giustificarsi, si fa racconto di un progetto, dentro e fuori del film. ORTONIANA Paolo Bertinetti Joe Orton ha attraversato come una meteora la scena inglese degli anni Sessanta (il suo primo lavoro, The Ruffian on the Stair, è del 1964, l'ultimo, What the Butler Saw, del 1967)lasciando dietro di sé l'ambigua fama di artista "provocatorio e irregolare" che i mass-media inevitabilmente costruirono a partire dalla sua morte. Orton fu ucciso a martellate da Kenneth Halliwell, suo amante e compagno per più di quindici anni, con cui aveva vissuto una formativa (?) esperienza di aspirante-artista bohémien, di frequentatore di gabinetti pubblici, di "deturpatore" di libri delle biblioteche comunali. In larga misura lo scandalo del personaggio si è sovrapposto al talento del drammaILCONTUTO turgo, facendo talvolta dimenticare i pregi di uno degli autori più scomodi - nonostante il successo commerciale - del teatro inglese contemporaneo. È anche vero però che lo scandalo è servito a mantenere intorno alla sua figura e alla sua opera un interesse costante, una curiosità magari pruriginosa che tuttavia spiega come sia stato pensabile e possibile, venti anni dopo, realizzare un film sulla sua vita (e se in Italia si fosse saputo di più "chi era Orton" il film non sarebbe scomparso così rapidamente dagli schermi). D'altronde Orton lo scandalo lo ha sempre cercato e sempre ha voluto essere programmaticamente provocatorio, nella vita e negli scritti. La scomodità di Orton nasceva dalla sua capacità di mettere a nudo l'arbitrarietà dei ruoli borghesi attraverso lo svelamento delle ipocrisie e delle squallide finzioni che consentono l'apparente rispetto delle convenzioni (soprattutto sessuali), delle regole e delle leggi stesse della società borghese. In questo sensoè legittimo il richiamo alla comedy of manners della Restaurazione, così come l'ironia al vetriolo di certe battute giustifica il paragone con il teatro di Oscar Wilde (che certamente era un suo possibile modello, come indirettamente dimostra la parodia dell'Importanza di essere Onesto contenuta nel suo ultimo testo teatrale). Ma la caratteristica della comicità di Orton consiste soprattutto nella contrapposizione tra l'eccezionalità delle sitùazioni descritte e la "normalità" della conversazione, che nasconde violenze, tensioni e desideri inconfessabili attraverso un linguaggio controllato, neutro, per bene. Le frasi dei personaggi riproducono i clichéspiù vieti del moralismo d'accatto dei giornali popolari; ed è proprio dal contrasto tra le frasi fatte della rispettabilità piccolo-borghese e la realtà su cui si innestano che nasce l'originalità e l'efficacia della satira di Orton. I toni farseschi del suo teatro (e l'ultimo lavoro è una farsa tout-court, giocata però, più che sull'apertura e chiusura delle porte, sulla perdita e sullo scambio degli abiti, con ampi intervalli di seminudità) avevano indotto alcuni dei primi registi a scegliere un tipo di messinscena fortemente stilizzata. Orton insisteva invece sulla necessità di una recitazione realistica. E aveva perfettamente ragi0ne, perché i suoi personaggi, il loro linguaggio, le loro pulsioni, riproducevano, con il gusto per lo sberleffo ma con precisa intuizione, la realtà che stava dietro la facciata del perbenismo borghese. Soltanto chi prendeva per buona la facciata poteva pensare ad un'invenzione astratta. 23

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